Ammettiamolo, Donald Trump sarebbe un vero simpaticone. Se non fosse un bugiardo seriale, un sovranista, razzista e psicologicamente instabile, sarebbe il leader più spiritoso del mondo. “In meno di due anni la mia amministrazione ha realizzato quasi più di ogni altra nella storia del nostro paese”, ha riconosciuto l’altro giorno all’assemblea generale dell’Onu. Grande risata in sala.
Notevole la spiegazione più che aziendalista di Nikky Haley, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite. I rappresentanti del mondo intero riuniti al palazzo di Vetro hanno riso perché “amano la sua onestà”. Sganasciarsi è stato un segno di “rispetto”. Questa linea sottile fra il ci sei o il ci fai, è il tema conduttore dell’amministrazione Trump: fino a che punto c’è un disegno in tutto questo e fino a dove non c’è che Groucho Marx.
Le assemblee generali delle Nazioni Unite, annuali come l’inizio d’autunno, non servono a nulla. Tutti i riti hanno un senso: di questo si fatica a trovarlo. Assomiglia a una specie di Suoni e Luci dal Mondo, a una sagra strapaesana globale alla quale chi non partecipa paga da bere. Ciò che si ripetono i leader negli incontri bilaterali a margine dell’assemblea, già se lo dicono per telefono o in videoconferenza quando vogliono. Quello che enunciano al leggìo della magnifica sala di Le Corbusier è quasi sempre già noto.
Donald Trump ha reso tutti un po’ più allegri, riempiendo per il secondo anno il vuoto lasciato da Arafat, da Gheddafi, da Nikita Krushov e da altri leader flamboyant, capaci di offrire un po’ di colore fra tanta banalità. Uno come l’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, per esempio, non ne sarebbe capace.
Dire “respingiamo l’ideologia del globalismo e abbracciamo quella del patriottismo” o sostenere che l’aiuto internazionale non deve essere fondato su compassione o bisogno ma su ciò che se ne ottiene in cambio, non sono affermazioni che fanno ridere. Ma dette da Trump, un po’ si. Sarà il suo linguaggio del corpo, quel riporto biondissimo, la convinzione – tutta da dimostrare -che presto ci libereremo di lui.
Dedicare 35 minuti di discorso per offendere a tutte le latitudini, non induce alla credibilità. L’elenco di quest’anno dei nemici dell’America è così composto: Siria, Venezuela, Cuba, Iran, Cina, Opec, Wto, Consiglio Onu per i diritti umani, Corte criminale internazionale, Germania, Canada e persino i paesi scandinavi in quanto socialisti. Interessante che la Russia non sia mai stata citata fra i cattivi né fra i virtuosi del mondo.
Nella lista di proscrizione trumpiana colpisce la Cina. Non tanto per le note questioni daziarie, per essere responsabile della chiusura di “60mila fabbriche” e la perdita di “tre milioni di posti di lavoro” negli Stati Uniti. Quanto per il tono delle accuse: la Cina è la vera minaccia economica, strategica e geopolitica per l’America. E’ il nemico da contenere, l’avversario da battere.
Se l’avesse detto un presidente diverso da Trump, gli avremmo dato ragione. Perché mentre gli Usa si ritirano, la Russia spende i suoi ultimi soldi in Siria e Ucraina, l’Europa si spegne in un lento suicidio collettivo, silenziosamente la Cina cresce, cresce e cresce. Deng Xiaoping diceva che la Cina “deve attendere il momento opportuno”, invece i suoi attuali successori hanno fretta e sono ambiziosi. Il Washington Post ricorda che nel Mar cinese meridionale la Cina rivendica 1,3 milioni di miglia quadrate di mare: “E’ ridicolo. E’ come se gli Stati Uniti rivendicassero i Caraibi”.
Obor, la nuova via della seta, è il suo cavallo di Troia: gli occidentali che vi partecipano guadagnano qualche buon miliardo, gli africani invece indebitano figli e pronipoti fino alla quinta generazione per avere una diga o un’autostrada. I cinesi guadagnano molti miliardi e influenza politica. E’ molto probabile che in un futuro non lontano i presidenti americani saranno costretti a dire che su qualche cosa Donald Trump aveva avuto ragione.