“I movimenti di protesta in Medio Oriente si trovano sempre di fronte all’enorme ostacolo della repressione e raramente hanno un lieto fine. Quando riescono ad abbattere un autocrate, raramente riescono a porre fine all’autocrazia”, spiegava qualche giorno fa sul sito di “The Atlantic” Karim Sadjadpour, senior fellow di Carnegie.
Sarà così anche in Iran: il governo del moderato Hassan Rouhani è un po’ più debole di prima; lo “stato profondo” più conservatore, formato dal clero, dagli apparati militari e della sicurezza, è forse un po’ più forte; sarà fatta qualche piccola riforma economica per andare incontro alle istanze sociali. Ma l’autocrazia khomeinista continuerà. In Egitto Mubarak fu sacrificato per al Sisi, lasciando immutato il sistema: a Teheran non cambieranno neanche i volti.
Eppure non esiste una rivoluzione permanente: dopo Mao viene sempre un Deng perché nessun popolo può restare a tempo indeterminato al servizio permanente effettivo di una rivoluzione. Nemmeno se, come quella iraniana, è una mobilitazione nel nome di dio.
Se ne ripercorriamo la storia, il regime clericale imposto da Khomeini, dietro la brutalità del suo apparato repressivo è sempre stato intrinsecamente debole. Nel 1979 gli ayatollah scipparono la rivoluzione fatta soprattutto da altri che avevano abbattuto il regime dello Shah. Se l’anno successivo Saddam Hussein non avesse invaso l’Iran, mobilitando la nazione (compresi i nemici di Khomeini) per la salvezza della patria, la repubblica islamica sarebbe probabilmente crollata.
Nel bagno di sangue di quella guerra – più di un milione di morti – Khomeini sguazzò, rifiutando qualsiasi tentativo di mediazione e mandando migliaia di giovani al massacro. E quando fu impossibile non accettare la tregua voluta dal pragmatico Rafsanjani, l’Iraq armato dall’Occidente non restituì i territori conquistati: tecnicamente, l’Iran aveva perso quella guerra.
Dopo il conflitto col vicino arabo, ci sono state proteste popolari nel 1990, nel ’99, nel 2009 e in questi giorni. Ogni volta che gli iraniani hanno potuto votare, hanno quasi sempre scelto i riformisti; quando il clero impediva a questi ultimi di candidarsi, gli iraniani comunque sceglievano un moderato, non il designato del regime, come è accaduto due volte con Rouhani; e quando il regime barava sui risultati, come nel 2009 per far rivincere Mahmud Ahmadinejad i cui sperperi sono alla base delle attuali difficoltà economiche, gli iraniani sono tornati in strada a protestare.
E’ di relativa importanza che nove anni fa si fosse ribellata la borghesia colta urbana; e che questa volta lo abbiano fatto i figli e nipoti dei mostazafin, i senza scarpe, gli oppressi che nel ’79 furono la fanteria della rivoluzione khomeinista. Il dissidente Ebrahim Nabavi li ha chiamati “la folla dei mangiatori di patate”. Quasi 40 anni dopo la rivoluzione, sono ancora mostazafin ma con una differenza generazionale non irrilevante: hanno uno smartphone. Circa 40 milioni di iraniani sono utenti di Telegram: sono connessi col mondo.
Per molti versi è anche irrilevante che in questi disordini i sobillatori delle prime proteste contro la crisi economica fossero clero e pasdaran per indebolire il moderato Rouhani. E che subito dopo – quasi come il colpo di risposta di una lotta interna al potere – il web rendesse pubblica la parte del bilancio dello stato che è sempre rimasta segreta: quella che conteggia i milioni spesi dalle guardie rivoluzionarie per finanziare le loro guerre e quelle di Hezbollah, il fiume di denaro dato alle scuole coraniche e alle istituzioni religiose.
Perché quando una rivoluzione è stanca e perde la sua forza propulsiva, i rivoluzionari diventano casta. Come in tutti gli stati autoritari, come a Cuba e in Cina, militari e pasdaran più dell’ideologia difendono i loro importanti interessi nell’economia nazionale.
Delle manifestazioni di questi giorni conta che una volta di più migliaia d’iraniani siano scesi in strada in ognuna delle province del paese e che scandissero slogan a 360 gradi: contro il carovita, l’economia che non cresce, l’asfissia del regime clericale, i diritti dei giovani disoccupati (il 40%) e delle donne, l’avventurismo militare nella regione.
Anche il gigante geopolitico regionale che ha imposto la sua presenza in Iraq, salvato Bashar Assad, che finanzia Hezbollah libanese, arma gli Huthi yemeniti e terrorizza i principi sauditi; anche questo protagonista, il vero vincitore emerso dal grande caos mediorientale, ha i piedi d’argilla.
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