Avviso ai naviganti, agli internauti, ai disinformati, ai populisti e ai politici. La prossima volta che ci sarà un attentato di matrice islamica in Occidente (sul “Guardian” il capo dell’intelligence service dice che in Gran Bretagna è imminente https://www.theguardian.com/uk-news/2017/oct/17/uk-most-severe-terror-threat-ever-mi5-islamist?utm_source=esp&utm_medium=Email&utm_campaign=GU+Today+main+NEW+H+categories&utm_term=248435&subid=21735151&CMP=EMCNEWEML6619I2 ), non chiedete ai governi arabi e agli imam delle comunità musulmane in Italia di condannare gli attacchi. Sabato scorso a Mogadiscio i terroristi di al Shabaab legati ad al-Qaeda, hanno ucciso 300 somali musulmani e ferito altri 500. Nella prima metà dell’anno hanno già fatto 1.800 vittime. Scarsa o nulla visibilità sulla stampa, silenzio di quei partiti muscolari, populisti e anti-islamisti che di solito non perdono occasione di parlare.
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Scusate l’inciso. Veniamo al tema del post: il Medio Oriente. Con la presa di Raqqa, liberata dalle forze democratiche siriane sostenute dagli Stati Uniti, e la sconfitta del califfato, si chiude la seconda fase del grande caos regionale. La prima erano state le primavere arabe e il loro fallimento. La seconda era iniziata con l’ascesa militare e territoriale dell’Isis, e si chiude con la sua caduta. La terza inizia adesso. La potremmo definire “Scramble for Levant”, la mischia per la conquista della regione, per citare un grande libro dedicato alla corsa coloniale del continente nero (“The Scramble for Africa”, Thomas Pakenham, 1990).
Raqqa doveva ancora essere ripulita delle ultime sacche di resistenza e dalle trappole esplosive, che in Iraq le forze governative già attaccavano i curdi e s’impadronivano dei campi petroliferi di Kirkuk. Nel frattempo la Turchia ha vietato tutti i voli da e per il Kurdistan iracheno. I peshmerga che più di ogni altro avevano resistito, combattuto a lungo in solitudine e vinto l’Isis, sono di nuovo soli. Probabilmente non avrebbero dovuto organizzare il referendum sull’indipendenza ma anche se non l’avessero fatto, turchi, iracheni, siriani e iraniani avrebbero spazzato le aspirazioni territoriali curde e avviato la terza fase del caos mediorientale: appunto la mischia per occupare il vuoto lasciato dall’Isis.
Sono gli stessi paesi che per decenni hanno minacciato Israele perché negava i diritti dei palestinesi, sbraitando e lottando (del tutto teoreticamente) per la loro libertà. In una splendida manifestazione d’ipocrisia nemmeno i curdi, i loro palestinesi, hanno diritti.
Essendo alleato del governo di Baghdad e dei curdi, Donald Salomone Trump ha deciso di non agire. Meglio così: potrebbe fare danni peggiori. Tuttavia una superpotenza, soprattutto quella americana che con l’invasione dell’Iraq del 2003 aveva iniziato il processo di disgregazione regionale, dovrebbe mediare, esattamente sfruttando il vantaggio di essere amico dei contendenti.
Ma il Medio Oriente non è più terra di conquista militare o diplomatica per le potenze esterne alla regione. Certo, la Russia ha tratto importanti vantaggi dai fallimenti e dalla ritirata americana: è giusto dire che Putin sia un vincitore di questa seconda fase del grande caos. Ma gli Stati Uniti sono un memento di ciò che in Medio Oriente non si deve fare: restarci troppo a lungo. Nello Scramble for Levant la partita vera è fra i paesi della regione che Usa e Russia possono armare, appoggiare ma non determinarne la traiettoria.
Quello che tuttavia non appare dopo i sei anni di terremoto – quattordici se più correttamente facciamo partire il processo dalla conquista americana di Baghdad e dalla distruzione delle statue di Saddam Hussein – è un orizzonte: una luce in fondo al tunnel, un leader, l’esempio di un paese meritevole di guidare la rinascita.
L’uso politico dell’Islam prima e dopo l’Isis, continua ad essere una palla al piede per la modernizzazione; senza gli idrocarburi re ed emiri del Golfo vivrebbero nel XVIII secolo, in parte lo fanno comunque; nonostante Rouhani, l’Iran resta un paese fondamentalista; il mosaico di sette ed etnie è sempre una ragione d’instabilità e non di ricchezza; leaders nuovi o sopravvissuti al caos continuano ad avere la mentalità del rais legittimato da esercito e mukhabarat, non dal consenso popolare.
Anche dopo la caduta dell’Isis a Raqqa garantita da curdi e americani, e dopo quella di Deir el-Zor che sarà liberata da regime di Damasco e russi, la Siria resterà divisa. Il relativo vincitore della guerra civile è Bashar Assad: ne è sopravvissuto e garantisce l’unico centro di plausibile potere statale. Ma a cosa servirà? Potrebbero mai gli Assad essere diversi da quello che sono sempre stati? Posto che ne abbiano mai chiusa una, il regime ripristinerà le carceri nelle quali scompariranno altre migliaia di oppositori. La società civile di un paese carico di storia rimarrà ingabbiata fino alla sua prossima esplosione.