Restare informati è sempre utile. Ma non appassionatevi troppo ai tweet di Donald Trump, non perdete tempo a chiedervi se e quando arriverà l’impeachment per la “cosa russa”. Né tantomeno eccitatevi per i successi geopolitici di Vladimir Putin in Medio Oriente. Se pensate che il modello di leadership vincente sia quello del presidente russo, di un autocrate per consenso dei governati, siete sulla strada sbagliata.
La notizia è un’altra. E’ la Cina. Mercoledì a Roma, ricevendo il premio 2017 dell’Istituto d studi di politica internazionale, Ispi, Emma Bonino rifletteva su quello che dovrebbe essere un paradosso e invece è ormai un fatto di cronaca: oggi gli Stati Uniti sono i principali oppositori della globalizzazione – un sistema che loro stessi hanno creato e che continua ad arricchirli nonostante ciò che dice Trump– e la Cina è il suo primo sostenitore. Anzi, realizzatore.
Segretamente amici o realmente concorrenti, Donald Trump e Vladimir Putin giocano una partita vecchia. Anche se gli Stati Uniti hanno i numeri della superpotenza (economici, militari e per quantità di alleati), questi Stati Uniti non sono all’altezza di esercitare una vera egemonia. La Russia non ha nessuno di questi numeri, la sua economia è obsoleta e la sua smania egemonica priva di sostegni: ha sostituito i piani quinquennali votati dal comitato centrale con i signori del mercato – gli oligarchi – che esistono solo se servitori di Putin. Tranne le armi e gli idrocarburi, non producono né esportano nulla.
La Cina ha ancora il comitato centrale e un equivalente del politburo ma ha il mercato, esporta, crea una banca di sviluppo asiatica che fa concorrenza alla Banca Mondale. Quando ero corrispondente a Mosca, negli anni di Gorbaciov, avrò scritto una decina di articoli sulla riforma agraria che doveva eliminare i kolkoz: la riforma non è mai stata realizzata. Deng Xiaoping l’aveva annunciata dieci anni prima e in Cina le comuni agricole erano sparite subito.
Per decreto del comitato centrale, la Cina ha deciso che sarà una superpotenza solo nel 2049, in occasione del centesimo anniversario della Repubblica Popolare. Nel frattempo ha già individuato gli Stati Uniti come avversario strategico e guarda alla Russia semplicemente come un fornitore delle materie prime necessarie ad alimentare la sua crescita economica. Nei documenti ufficiali spesso la Russia è indicata come una “resource rear”.
Putin è finito nella palude inestricabile del Medio Oriente, raggiungendo gli Stati Uniti. Intanto la Cina fa l’Obor. E’ l’acronimo di One Belt One Road che in mandarino si dice Yi Dai Yi Lu. Xi Jinpin, il presidente cinese, l’aveva annunciato nel 2013 e in questi giorni, mentre l’America si contorceva attorno alla “cosa russa”, ha organizzato un summit mondiale per inaugurarlo. Da qui al 2049, quando la Cina ha deciso di definirsi superpotenza, Obor ha intenzione di creare una serie d’infrastrutture: strade, porti, aeroporti, telecomunicazioni che connetteranno 64 paesi in Asia, Europa e Africa – cioè il 65% della popolazione e il 30 del Pil mondiali – in una rete gigantesca di scambi commerciali.
Una turbo-globalizzazione. Potrebbe non realizzarsi come la Cina promette. Ma è un potente segno dei tempi nuovi e confusi (per noi, non sembra per i cinesi) che il progetto inizi mentre Trump e i populisti europei straparlano di muri, dogane, dazi, “America first”, Brexit, “l’Italia farà da sé”.
La Cina non fa tutto questo a fin di bene: ha grandi ambizioni. Come sostiene un grande studioso di quel paese, è “una civiltà che finge di essere uno stato-nazione”. Ma nel suo disegno c’è l’acquisto dei porti commerciali nelle zone strategiche del mondo: non come i russi, soddisfatti di aprire una base militare in Siria ma come gli inglesi che per diventare un impero politico e militare, incominciarono dall’impero dei commerci mandando avanti le compagnie mercantili private.
Perché anche quello cinese è imperialismo. Ma Putin risolve il suo problema di sovranità territoriale invadendo con le armi la Crimea, come si faceva nel XVIII secolo. A Pechino disinnescano i loro a Taiwan e Hong Kong, inventando formule diplomatiche. Gli imperialismi che nella storia hanno avuto successi più duraturi sono quelli che condividevano la ricchezza prodotta con alleati e associati. Come Roma e gli Stati Uniti. Zarista, stalinista o putiniana, la Russia non ha mai praticato questo “imperialismo virtuoso”. Ora, anche gli Stati Uniti di Donald Trump sembra vogliano rinunciarvi in nome di un primato americano che li faranno assomigliare più alla obsoleta Russia che alla nuova Cina.