Ho avuto il privilegio di moderare uno dei panel della conferenza Italia-Africa, organizzata alla Farnesina dal ministero degli Esteri e dall’Istituto di studi per la politica internazionale, l’Ispi. L’incontro che ho condotto era quello dedicato a “Peace and Secutity in Africa – Peacekeeping, Peace-Building and African Ownership”. C’erano Mario Giro, il vice ministro degli Esteri, responsabile per la Cooperazione e una quindicina di ministri africani.
Alla mia sinistra era seduta Irene Khan, la direttrice generale di Idlo, l’International development law organization, l’ente intergovernativo che promuove lo stato di diritto. Alla fine del suo appassionato intervento sul primato della legge come passo essenziale per costruire pace e sicurezza in Africa, sotto voce le ho chiesto quanti fra coloro che sedevano attorno al tavolo e l’avevano calorosamente applaudita, applicavano nel loro paese un decimo delle sue raccomandazioni. “Pochi”, mi ha risposto. “Ma noi non ci arrendiamo”.
Cleptocrazia e giustizia per pochi continuano a trionfare nel Continente, restando una delle cause principali della sua instabilità e della relativa crescita. Nei giorni successivi alla conferenza, più di un giornale ha infatti criticato l’iniziativa italiana, ricordando che in molti casi anche il “Migration compact” proposto dal nostro governo, arricchirà chi è al potere e non darà alcun beneficio ai giovani che saranno costretti a continuare ad emigrare.
E’ molto probabile. Tuttavia, ogni volta che vedo, sento o leggo critiche di questo genere, per quanto le condivida (e le condivido) non posso non pensare all’altra faccia della medaglia. A cosa abbiamo fatto noi in Africa per secoli, quale colossale rapina sia avvenuta in nome del “fardello dell’uomo bianco”.
Fra il 1501 e il 1867, sono stati 12 milioni e 570mila gli africani deportati nelle Americhe dagli europei. E’ difficile quantificare quanto ne avessero guadagnato le colonie inglesi, francesi, spagnole e portoghesi. Verso la metà del XIX secolo negli Stati Uniti investire nella crescente industria ferroviaria rendeva il 6-8%, nel mercato degli schiavi il 13.
Una ricerca pubblicata dal New York Times calcola che ai valori del mercato del lavoro del 1860, l’economia americana ha risparmiato fra i due e i tremila miliardo di dollari in stipendi non pagati più gli interessi. Un altro calcolo più ampio nel tempo, fatto ad Harvard, sostiene che la somma economica della schiavitù legale, della successiva segregazione legale e dell’attuale discriminazione razziale verso gli afro-americani, vale fra i cinque e i 24mila miliardi di dollari.
Noi europei siamo stati particolarmente ostinati con l’Africa. Prima, per secoli, ne abbiamo rapinato le risorse umane con lo schiavismo. Poi, non appena le leggi ci hanno finalmente impedito quell’attività, siamo andati a rapinarne le risorse naturali. “The Scramble for Africa”, la mischia, l’assalto coloniale al continente, è stato tanto brutale quanto limitato nel tempo. La gran parte della colonizzazione africana è iniziata nel 1870, non appena conclusa la tratta degli schiavi, e si è conclusa nel 1900. Ci sono stati degli epigoni: ancora nel 1934 il fascismo ha cercato il suo posto al sole in un continente ormai sovraffollato di potenze coloniali. Ma è in quei 30 anni alla fine del XIX secolo che è avvenuta la grande rapina.
Non aggiungo che forme di colonialismo sono state anche le conseguenze della Guerra fredda in Africa, l’avidità delle multinazionali, l’applicazione da dottor Mengele delle teorie economiche del Fondo monetario e la brutalità degli investimenti cinesi.
So che nello Zimbabwe esiste Robert Mugabe, che in Sudafrica Jacob Zuma sta distruggendo l’eredità di Madiba Mandela; che Paul Kagame, mentre costruisce il successo economico del Ruanda, cambia le regole per restare al potere per i prossimi 20 anni e oltre. Ma nonostante questo, non riesco a dimenticare cosa sono stati i primi 500 anni di coesistenza fra noi e l’Africa.
Allego il commento sulla tragedia aerea egiziana, pubblicato dal Sole 24 Ore.