Il siluro di Bibi Netanyahu è partito prima ancora che Laurent Fabius, il ministro degli Esteri francese, lo incontrasse per presentare la sua iniziativa di pace. Ma prima di parlarne è meglio ricordare la notizia più importante: c’è ancora qualcuno nella comunità internazionale che cerca di ridare vita al cadavere del così detto processo di pace fra Israele e palestinesi. Posto che qualcuno ne ricordi ancora l’antica esistenza.
D’accordo con il resto degli europei, l’amministrazione Obama e probabilmente i paesi arabi moderati – ma non con Israele, l’Autorità palestinese né Hamas – i francesi presenteranno al Consiglio di sicurezza dell’Onu una nuova risoluzione. Vuole essere un aggiornamento, una forma più moderna e corrispondente alla realtà, delle vecchie risoluzioni 242 del 1967 e 338 del 1973. Il documento è pronto ma sarà presentato a New York solo dopo il probabile accordo sul nucleare iraniano. Si vuole evitare di mettere troppa carne al fuoco.
“E’ un dictat”, ha tuonato Netanyahu con lo sguardo del lottatore. “Non esiste un reale riferimento riguardo alle necessità di sicurezza d’Israele. Ci vogliono imporre frontiere indifendibili, ignorando cosa sta accadendo oltre quelle frontiere”.
Dal punto di vista tecnico Netanyahu non ha torto: quando si è ritirato dal Libano nel 2000 e dalla striscia di Gaza nel 2005, Israele non ha avuto in cambio la pace ma le guerre con Hezbollah e con Hamas. Nel frattempo il Medio Oriente arabo oltre le frontiere israeliane è diventato ancor più caotico e pericoloso.
In realtà Netanyahu prende solo ciò che gli serve dell’iniziativa francese, non il suo insieme. La risoluzione propone l’immediata ripresa della trattativa, un negoziato di 18 mesi alla fine del quale deve essere stabilito un accordo permanente. Se non accade nulla, la Francia e probabilmente molti altri occidentali, riconosceranno lo stato palestinese.
L’obiettivo dell’iniziativa non è raggiungere la pace in 18 mesi ma spingere le parti a fissare entro quel periodo le modalità per raggiungere la pace. Israeliani e palestinesi, cioè, devono stabilire che il ritiro israeliano entro i confini del 1967 con uno scambio di territori concordato, Gerusalemme come capitale di entrambi gli stati, lo smantellamento delle colonie ebraiche, se e come i profughi palestinesi potranno tornare e la sicurezza d’Israele, sono i capisaldi necessari di ogni soluzione di pace.
Netanyahu rifiuta di leggere fino in fondo la proposta francese che in realtà pone la sicurezza d’Israele, quali saranno alla fine i confini concordati, “al centro dei colloqui di pace”. Anche Abu Mazen è contrario perché come gli israeliani hanno le loro obiezioni massimaliste, così la capacità di compromesso palestinese è estremamente tenue. Dopo così tanti anni le parti continuano ad avere la presunzione di vincere la lunga guerra, non di fare delle rinunce in nome di un risultato alla fine più vantaggioso ma comunque doloroso.
Per questo Fabius vuole superare l’ostinazione di israeliani e palestinesi, mettendo nella trattativa il peso della diplomazia internazionale. La richiesta agli arabi moderati – Arabia Saudita, emirati del Golfo ed Egitto – è di aderire alla risoluzione, anche se i palestinesi vi si opporranno. E con gli americani l’obiettivo è di convincerli a non porre il solito veto: Barack Obama sembra disponibile a rompere l’antico tabù.
Forse non basterà neanche questo. Ma l’ultima possibilità rimasta è di imporre la pace a israeliani e palestinesi nonostante gli israeliani e i palestinesi.