“Il mondo intero attende il discorso del Presidente Mubarak”, titolava una volta l’Egyptian Gazette, una specie di Herald Tribune egiziano. L’intervento, uno dei tanti, che in realtà non aspettava nessuno, nemmeno gli egiziani, doveva essere tenuto a uno degli inutili vertici della Lega araba, ai tempi in cui il Medio Oriente era immobile nelle sue rassicuranti e omogenee autocrazie, capaci solo di ovattare i loro problemi, mai di risolverli.
A nessuno veniva in mente di comprare l’Egyptian Gazette: era in omaggio per gli ospiti dell’hotel Semiramis. Così sottile – raramente superava le quattro pagine – che lo facevano passare sotto la porta delle stanze. La gazzetta era la sintesi in inglese (c’era anche la versione francese: “Le monde entier attende le discours du President Mubarak”) dell’assoluto servilismo della stampa egiziana verso il potere. Specchio della palude nella quale da anni vivevano un paese e la sua capitale, un tempo intellettualmente vibrante.
Tornato al Cairo a distanza di un anno, ho ritrovato lo spirito dell’Egyptian Gazette: la testata non c’è più ma la sua etica lotta e vive con noi. L’Egitto di oggi non si può definire palude come l’Egitto di Mubarak: c’è una determinazione, forte e condivisa, di uscire dalla crisi economica, anche se non tutti i provvedimenti del governo sono chiari. Ma per il resto è la palude del pensiero unico: quello del presidente Abdel Fattah al-Sisi e delle forze armate.
La sua arma di distruzione di massa è la burocrazia, l’apparato, la repressione poliziesca: cioè lo Stato profondo che si era mimetizzato nei giorni di piazza Tahrir, che aveva sconfitto i Fratelli musulmani quando governava Mohamed Morsi, che si è subito allineato alla restaurazione dei militari.
Un visitatore straniero deve stare attento a chi incontra e a cosa dice in pubblico. Perché, come accade in ogni ecosistema del pensiero unico, ci sono sempre gli stupidi più solerti di quanto lo stesso Principe chieda di essere. Come quel burocrate che alcune settimane fa, nel pieno di una lodevole campagna per riconquistare il turismo internazionale, aveva annunciato che i visitatori stranieri avrebbero dovuto chiedere preventivamente il visto alle ambasciate e ai consolati egiziani. Fino ad ora il visto si compra all’arrivo, all’aeroporto del Cairo, al costo di 25 dollari.
Il fatto è che oggi una chiara maggioranza di egiziani è d’accordo col pensiero unico del Principe: vuole da lui stabilità, ordine, opportunità economiche. Democrazia e libertà di espressione sono stati sacrificati immediatamente: del resto l’una e l’altra gli egiziani non l’avevano mai avuta: se non nel breve e confuso periodo di piazza Tahrir in mezzo alla quale oggi è stato eretto un altissimo pennone. In cima garrisce una gigantesca bandiera egiziana. Come accade spesso nella storia, dopo aver represso la rivoluzione, i militari se ne sono appropriati: sostengono di esserne i custodi.
Qualche sera fa sono stato invitato a casa di amici egiziani a Zamalek, ad una cena molto interessante: uomini d’affari e personalità molto vicine al potere. In realtà erano più sopravvissuti dell’epoca di Mubarak, ma ormai tutti coloro che hanno beneficiato del vecchio regime sono sostenitori di quello nuovo. Le differenze ci sono ma appaiono impercettibili a chi non frequenta l’Egitto da anni. Secondo la rivista Forbes dalla rivolta di piazza Tahrir nel gennaio 2011 a oggi, il Big Business egiziano è diventato l’80% più ricco.
Pur non mancando a nessuno dei presenti benessere né opportunità imprenditoriali, tutti erano certi di essere vittime di una cospirazione americana. Era stata l’America ad aver complottato per far cadere Mubarak e distruggere l’Egitto, con lo scopo di portare al potere i Fratelli musulmani. Secondo uno dei commensali la prova era il discorso di Barack Obama all’Università di al-Azhar, il 4 giugno 2009. “A New Beginning”, il discorso, era rivolto all’intero mondo arabo per chiudere l’esperienza dell’amministrazione Bush che aveva invaso l’Iraq, e aprirne una nuova di apertura e democrazia.
Senza quel discorso – diceva a tavola l’amico egiziano, puffando un sigaro cubano – non ci sarebbero state piazza Tahrir né il “colpo di stato” dei Fratelli musulmani (che in realtà avevano vinto tutte le elezioni). Per corroborare la teoria cospirativa, il padrone di casa era andato ancora più indietro nel tempo. Nel 1945 gli americani avevano imprigionato i musulmani che erano fuggiti dalle repubbliche sovietiche e avevano combattuto con la Wermacht. Li avevano educati alle arti della dissimulazione e mandati in Medio Oriente per far rinascere la fratellanza e inventare al-Qaida.
Nella lunga e interessante serata nessuno ha ricordato che gli Stati Uniti avevano ripreso a rifornire gratis l’Egitto di armi per 1,3 miliardi di dollari; che l’amministrazione Obama ritiene la fratellanza un’esperienza finita e comunque un affare egiziano. Gli americani non perdono più tempo a discettare se quello di al-Sisi sia stato un golpe o una liberazione: le cose sono andate così, punto. L’obiettivo oggi è aiutare l’Egitto a crescere, stabilizzarsi e a garantire la sua sicurezza. Un americano seduto a tavola accanto a me, mi spiegava che se oggi l’Egitto decidesse di passare alle armi e ai sistemi di difesa russi, la riconversione durerebbe 30 anni.
Credendo appassionatamente alla loro teoria della cospirazione per trovare un colpevole delle loro sfortune, diverso da loro stessi, gli amici egiziani dimenticavano di aver frequentato le migliori università americane. E di continuare a fare affari proficui con le imprese private americane.