
Quelle della Casa Bianca e del Campidoglio erano porte girevoli per Bibi Netanyahu: nelle sue ricorrenti visite a Washington vi entrava e usciva a piacimento. Mai tuttavia l’israeliano aveva avuto come Mohammed bin Salman bande musicali, sorvolo di aerei e quel cerimoniale riservato allo stretto alleato che da’ e riceve. Era invece consuetudine che Netanyahu venisse a riscuotere e gli americani concedessero.
E’ stata una specie di spartiacque la visita, originariamente d’affari ma diventata di stato, del principe ereditario saudita: comunemente chiamato col suo acronimo, MbS. Segnala con una certa evidenza un mutamento in Medio Oriente: i sauditi non sostituiscono Israele ma quest’ultimo non è più così prioritario come è stato fino ad ora. “Gli israeliani sembrano non cogliere la portata delle affinità di Donald Trump con gli stati del Golfo”, commenta Mark Lynch della George Washington University, di Washington.
Si doveva esplorare l’immensità dei possibili affari tra Arabia Saudita e Stati Uniti, oltre a quelli già in corso. Il principe che per il potere che detiene, è già il monarca del regno, aumenterà dagli attuali 600 a mille miliardi di dollari gli investimenti negli Usa. Ed è solo una parte del business potenziale fra i due paesi.
L’Arabia Saudita aveva già ottenuto lo status di “importante alleato”: la qualifica consente di accedere con più facilità all’arsenale militare americano. In cambio degli investimenti promessi, Donald Trump ha deciso di fornire al regno un numero cospicuo di caccia F35. Ad eccezione dei B-2 Spirit – che in estate avevano bombardato l’Iran – non c’è nulla di più avanzato nell’arsenale aeronautico americano. Gli accordi militari di questo genere erano sottoposti al veto israeliano: la superiorità aerea dello stato ebraico nella regione era un “vantaggio strategico qualitativo” ritenuto intoccabile anche dagli americani.
A una presidenza la cui politica estera è fondata sulla priorità delle transazioni commerciali con amici e nemici, i sauditi e gli altri paesi del Golfo possono dare molto più di quanto possa Israele. Sia agli Stati Uniti che agli affari della famiglia Trump: prima del vertice la Dar Global saudita e la Trump Organization avevano annunciato la costruzione di un resort lussuoso alle Maldive.
Ma non è solo una questione di affari. “Vision 2030”, il grande progetto col quale MbS vuole cambiare il regno, né gli affari pubblici e personali di Trump possono essere realizzati fino a che la regione è un ricettacolo di conflitti. Per il nuovo realismo dimostrato, una settimana prima anche Ahmed al-Sharaa era stato ricevuto da Trump: prima di andare alla Casa Bianca, il presidente siriano aveva giocato a basket con alcuni generali americani.
Oggi è Benjamin Netanyahu, assieme al suo governo e ad Hamas, ad essere percepito come il destabilizzatore del Medio Oriente (e degli interessi americani). Con la distruzione di Gaza, i bombardamenti in Libano, Siria e Iran, gli israeliani hanno travalicato ogni legittimo diritto alla difesa. L’attacco a Doha, Qatar, un altro “importante alleato” Usa, è stato un eccesso d’arroganza, causato dalla pretesa israeliana di essere la potenza egemone della regione: un’ambizione che ha pervaso il governo e i vertici della sicurezza d’Israele.
Nel 1945, dopo aver sconfitto i nazisti, gli Stati Uniti diventarono la potenza egemone d’Occidente, con l’entusiastico consenso di governi e cittadini europei. Alcuni bombardamenti d’Israele contro obiettivi sciiti possono aver fatto piacere ai sunniti, ma nessuno in Medio Oriente desidera essere sotto la leadership dello stato ebraico. “Il primato militare israeliano e l’insoddisfatta sottomissione araba non costruiscono un ordine sostenibile”, dice ancora Mark Lynch della George Washington.
Scegliendo apertamente i repubblicani, in questi anni Bibi ha perso il sostegno democratico. Ma intanto il primo dei due partiti è passato sotto il controllo dei leader e dall’ideologia Maga, non così filo-israeliani. Alcuni giorni fa Tucker Carlson, l’aedo fra i più estremi del Make America Great Again, aveva intervistato sul suo seguitissimo podcast Nick Fuentes, noto antisemita. Era scoppiato un caso ma Kevin Roberts, presidente di Heritage Foundation, aveva difeso Carlson: “La mia lealtà come cristiano e come americano, è Cristo prima e America sempre”. Secondo lui, in nome della “libertà di espressione” anche il nazista Fuentes aveva diritto di parlare. Roberts, un cattolico, è l’ideatore di Project 2025, il programma politico del secondo mandato Trump. Il cristianesimo fondamentalista che rappresenta è molto diverso da quello dei protestanti evangelici, tradizionalmente vicini a Israele.