Gaza, il tormento d’Israele

Nel giugno 1967, alle soglie della guerra dei Sei Giorni, David Ben Gurion non aveva più cariche di governo, sebbene molti lo avrebbero voluto ancora alla guida del paese. Aveva ormai 81 anni ma il giudizio del padre-fondatore d’Israele ancora contava.

All’ala militare guidata da Moshe Dayan, Yitzhak Rabin e Ariel Sharon che premevano per un attacco preventivo, e al più cauto esecutivo guidato da Levi Eshkol, Ben Gurion diede molti consigli su come conquistare Gerusalemme, che fare della Cisgiordania, se annettere il Golan siriano e spingersi attraverso il Sinai egiziano fino al Canale di Suez.

Un solo suggerimento fu dato con un tono che avrebbe potuto sembrare un ordine: non occupate Gaza. Nella striscia allora vivevano 400mila palestinesi, la metà dei quali profughi: “Non sarà facile liberarci di loro”, ammonì il grande vecchio.

Dayan e Rabin non lo ascoltarono e la Storia continua a dare ragione a Ben Gurion. L’ultima idea proposta per risolvere il problema è tornare al punto zero: rioccupare Gaza. A lungo termine, in modo permanente, colonizzandola di nuovo, cacciandone gli abitanti. Questo non è ancora chiaro. Il Capo di stato maggiore Eyal Zamir è contrario a qualsiasi di queste forme di occupazione; i ministri nazional-religiosi ne sostengono le più radicali al grido di “morte agli arabi”.

Sebbene sia l’ispiratore dell’ennesima occupazione di Gaza nella storia del conflitto israelo-palestinese, è ancor meno chiaro quale sia l’obiettivo di Bibi Netanyahu. Potrebbe essere l’ennesimo caso di “bibismo”: una teoria politica applicata molte volte che prevede di spararla grossa per poi non fare nulla, con l’unico scopo di mantenere il potere. Fino ad ora è stato un successo: neanche Ben Gurion ha guidato Israele tanto quanto Netanyahu.

Nella storia del conflitto Gaza è un punto fermo. Quando nasce lo stato ebraico nel 1948 la Cisgiordania né la striscia diventano Palestina: la prima è annessa da re Abdullah di Transgiordania, la seconda presidiata ma non presa dall’Egitto che non se ne impossessa, capendone le criticità prima di Ben Gurion: così affollata di profughi, la striscia era un pericoloso avamposto della causa palestinese.

Nel 1956 Gamal Nasser nazionalizza Suez. In un complotto preordinato, Israele attacca l’Egitto, Francia e Inghilterra intervengono per dividere i contendenti. I veri obiettivi erano la conquista israeliana del Sinai e il ritorno del canale agli anglo-francesi. Interviene l’amministrazione Eisenhower che impone loro di ritirarsi. Gaza è occupata per breve tempo e Israele pensa di averne “sradicato” i militanti palestinesi. Sarà solo una prima volta.

Gli scontri di frontiera continuano per un decennio, quando nel giugno ’67 Israele rioccupa la striscia nell’attesa di decidere cosa farne. Finisce come in Cisgiordania: con il consenso governativo a volte tacito, quasi sempre attivo, gli estremisti israeliani costruiscono colonie ebraiche. E’ a Gaza che nel 1987 scoppia la prima Intifada. Ed è lì che poco prima era nato Hamas con il favore di Israele: il movimento islamico doveva indebolire il potere dei laici di Fatah. E’ stato il più grave errore di giudizio su Gaza.

Nel 2005 Ariel Sharon, diventato premier, smantella le colonie ebraiche. Molto prima di Donald Trump gli emiri del Golfo preparano i piani per fare di Gaza una “Dubai sul Mediterraneo”. Pochi giorni dopo Hamas nella sua follia nazional-religiosa (simile a quella degli estremisti del governo Netanyahu di oggi) ricomincia a lanciare missili su Israele. In realtà l’occupazione israeliana di Gaza non terminava allora né mai. Ne sono sempre cambiate solo le modalità: dalle colonie alla gabbia, dalla distruzione a una nuova occupazione.

Nell’aprile 1956 Roi Rotenberg, un ragazzo di guardia al kibbutz di Nahal Oz, fu ucciso da un gruppo di guerriglieri Gazawi. “Non scagliamoci contro i suoi assassini”, disse Moshe Dayan nella sua orazione funebre. “Come possiamo contestare il loro odio per noi? Da otto anni vivono nei campi profughi di Gaza mentre davanti ai loro occhi noi costruiamo le nostre case sulle terre nelle quali vivevano loro e i loro antenati”. Non è esattamente la stessa comprensione delle ragioni del nemico, biblicamente manifestate da Netanyahu e dal suo governo.

  • carl |

    Le ultime “breaking news” sembrano proprio “di rottura” o “una rottura”… Niente territorio cisgiordano per l’eventuale Stato palestinese. Sicchè rimangono validi i tre interrogativi a)b) e c) del mio precedente commento.

  • habsb |

    CARL
    La risposta ai suoi interrogativi è piuttosto semplice.
    Dal 7 ottobre in qua le vittime palestinesi sono 61mila, secondo le ultime stime.
    Ammettendo che all’anniversario di 2 anni (il 7 ottobre) si arrivi a 70000 (più che probabile), di questo passo (passo che non puo’ che accelerare, viste le condizioni in cui è ridotta Gaza, pensiamo alle malattie e alla fame), in 30 annni (una sola generazione) non vi sarà più alcun palestinese da trasferire.
    O magari ne resterà qualcuno da confinare in una riserva per la gioia dei turisti.
    Conosce la storia della gloriosa conquista del West in USA ?

  • carl |

    “…vivono nei campi profughi(…) mentre davanti ai loro occhi noi costruiamo le nostre case..”
    (Dayan dixit)
    A quanto pare qualcosa del genere sarebbe in programma. Pertanto, dei possibili interrogativi concreti sarebbero:
    a) dove/quando/come saranno trasferiti i gazauoi/gazawi nel mentre si avvierà/avverrà la ricostruzione shumpeteriana della “striscia di Gaza”..??
    b) In Egitto, in Giordania..??
    c) Egitto, Giordania ed altri ed eventuali accetteranno pedissequamente il trasferimento in questione, oppure…???

  • Fabio |

    «Il grande errore dei palestinesi sta nel fatto che avrebbero potuto trasformare Gaza in un luogo fiorente: invece hanno ceduto al fanatismo e l’hanno usata come rampa di lancio per i missili contro Israele. Se avessero fatto l’altra scelta, magari questo avrebbe spinto Israele a cedere anche la Cisgiordania e a mettere fine all’Occupazione anni fa», David Grossman. C’è poco altro da aggiungere.

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