Nonostante la cronica instabilità del Medio Oriente e a dispetto dell’espansionismo iraniano giusto sulla riva opposta del Golfo, armarsi non era una priorità saudita. Alla sua sicurezza garantivano le 22 basi militari americane nella regione, dall’Oman al Kuwait. Era a Washington che gli al Saud affidavano la loro sicurezza.
In cambio, il primo produttore mondiale di greggio garantiva stabilità sui mercati energetici: aumentava la produzione quando gli Stati Uniti lo chiedevano o la tagliava quando era ritenuto necessario. Ora i sauditi sono i secondi produttori, dopo gli Usa, garantendo comunque l’11% dell’estrazione mondiale. Ma se decidono di aumentare o ridurre la loro capacità produttiva di 11/13 milioni di barili al giorno, non chiedono più il parere americano. Nè si preoccupano di ciò che pensa l’amministrazione Biden se vendono alla Cina: nel 2021 l’interscambio con Pechino era di 4 miliardi, ora è di 87.
Come l’India, l’Arabia Saudita è diventata una protagonista del Sud globale, pronta a cogliere ogni occasione che offrono la nuova geopolitica e i mercati. Secondo Sipri di Stoccolma, il più importante centro studi sulla pace, l’anno scorso Riyadh è stato il quinto acquirente sul mercato mondiale delle armi: 76 miliardi di dollari, l’11% del suo Pil. Il quarto, l’India, ha speso 83.6 miliardi.
Ciò non significa che gli Usa non siano più il primo partner dei sauditi nella regione. Al contrario, Riyadh è il pilastro del nuovo Medio Oriente che aveva in mente Joe Biden. In realtà dal punto di vista saudita sono gli Usa ad essere strumentali al progetto di Mohammed bin Salman, il principe ereditario. Secondo il presidente americano il riconoscimento saudita d’Israele garantirebbe nuove prospettive alla pace. Secondo il principe saudita questo potrebbe accadere quando gli Usa promuoveranno il regno al rango di alleato sul modello Nato; quando lo avranno rifornito con le armi più sofisticate; e quando gli costruiranno un programma nucleare, compresa la produzione di uranio. La guerra di Gaza e le brutalità israeliane hanno congelato il piano, in attesa di momenti migliori. Se ne riparlerà se e quando Israele riconoscerà i diritti nazionali palestinesi.
Ai tempi del moderato Saud bin Faisal, ministro degli Esteri per 40 anni fino al 2015, i sauditi distribuivano petroldollari per restare fuori dai conflitti della regione. Oggi la loro ricchezza (riserve provate per 267 miliardi di barili, un costo di produzione di soli 5 dollari al barile) serve per fare dell’Arabia Saudita il protagonista della scena mediorientale di questo secolo.
L’artefice è Mohammed bin Salman, più noto come MbS. Non ancora 40 anni, è principe ereditario da quando ne aveva 32. In realtà è già il vero monarca: il padre Salman, 88 anni, soffre di demenza senile. Con modalità spesso controverse e commettendo gravi errori, nonostante l’età MbS è diventato il grande riformatore di quello che era il più irriformabile dei paesi.
La successione dinastica del regno creato nel 1932 da Abdulaziz, era lineare. Al trono salivano i figli, uno dopo l’altro, a partire dal più anziano: Abdulaziz aveva avuto 22 mogli e 50 figli maschi. Rompendo quella che col tempo era diventata una gerontocrazia, come primo leader della generazione successiva MbS è il prodotto di una riforma dinastica e di un golpe di palazzo: non doveva infatti essere lui l’erede.
Eliminati i concorrenti, MbS ha governato con brutalità e con scarsi successi: l’orribile assassinio dell’oppositore Kamal Khashoggi, la guerra nello Yemen, le sanzioni al Qatar, il sequestro del premier sunnita libanese Saad Hariri. Il principe aveva arrestato una ventina di cugini (la famiglia è composta da 22mila principi), tutti importanti uomini d’affari rinchiusi nelle suites del Ritz-Carlton di Riyadh. La libertà in cambio di un contributo a “Vision 2030”, il piano di rinascita tecnologica post-petrolifera dell’Arabia Saudita, che definire ambizioso è riduttivo.
I sauditi chiamano “dono di Allah” il petrolio sul quale vivono: continua a garantire il 90% della ricchezza nazionale e l’87 delle esportazioni. Ma prima o poi finirà e Mbs si è incaricato di costruire il dopo: attraverso la “saudizzazione” del mercato del lavoro, il massiccio ingresso femminile nel sistema produttivo, riducendo il potere dei religiosi, aprendo la società ai giovani: quasi il 50% dei sauditi ha meno di 26 anni.
Questo ultimo decennio è stato una specie di educazione al potere: MbS sta maturando, almeno per i canoni arabi. Anche il progetto di Neom, la costosissima visione di una città del futuro, è stato ridimensionato. Quattro anni fa Joe Biden aveva definito MbS un paria. Non è andata così. Oggi il principe praticamente già re, partecipa a tutti i consessi internazionali. E l’Arabia Saudita è un partner importante, se non necessario, per chiunque voglia costruire un nuovo Medio Oriente.