Questo gioco fra Israele e Iran su chi colpisce per ultimo, senza comunque provocare disastri che politica e realismo non possano riparare, è una infantile tauromachia. Tuttavia riesce a sfogare l’orgoglio dei contendenti e a salvare una parvenza di normalità in mezzo al caos: a impedire una guerra totale.
Almeno in questo caso le pressioni di Joe Biden hanno avuto effetto. Benjamin Netanyahu ha impiegato quasi un mese per rispondere: una tempistica piuttosto inusuale per Israele. L’intenzione originale era colpire i siti nucleari e i luoghi di estrazione del greggio, l’unica fonte che impedisce il collasso economico iraniano. In questo caso sarebbe stata guerra vera.
Sono stati scelti siti militari dopo congruo preavviso. Come del resto aveva fatto l’Iran le due volte in questi mesi che aveva lanciato razzi e missili su Israele. E come avevano fatto gli israeliani in mezzo ai due attacchi iraniani.
Per eventuali sviluppi gli interessati attenderanno l’incerto risultato delle elezioni americane: la vittoria di Donald Trump o quella di Kamala Harris potrà cambiare l’approccio all’instabilità mediorientale, prevedere scenari nuovi sull’immediato futuro. Vale per questa regione come per molte altre: la guerra in Ucraina, il futuro della Nato, il peso dell’Unione europea, fino al Mar della Cina e a Taiwan.
L’apparente scampato pericolo – del semi-credibile attacco israeliano, risposta al telefonato bombardamento iraniano, a sua volta reazione al precedente israeliano come vendetta a quello iraniano compiuto per vendicare l’uccisione di un leader di Hamas, a Teheran – è una soddisfazione a tempo limitato. Perché in questa strana guerra le tensioni e le possibili cause di un conflitto vero rimangono tutte intatte e sul campo: l’ambizione israeliana di far crollare il regime iraniano; quella iraniana di restare protagonista nella regione; Hezbollah e Hamas che Netanyahu non può eliminare; i dubbi su quale superpotenza sarà l’America dopo il voto del 5 novembre.
Sulla rivista Foreign Affairs Karim Sadjapour, esperto di Iran al Carnegie Endowment di Washington, mette a confronto l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman (39 anni) e il regime iraniano dell’Ayatollah Khamenei (85); “Vision 2030”, la modernizzazione economica e sociale del primo, e il 1979, l’anno della rivoluzione khomeinista dalla quale il secondo continua a trarre ispirazione. Dopo aver tentato per decenni un impossibile distacco dalle crisi del Medio Oriente, oggi l’Arabia Saudita sta diventando il principale protagonista della regione. Un game changer: il paese che può cambiare le statiche dinamiche mediorientali, la questione secolare fra Israele e palestinesi, la sequela di stati arabi falliti, i tribalismi e le croniche crisi economiche di molti paesi; i conflitti senza fine.
Quello che servirebbe al Medio Oriente è un grande accordo sulla sicurezza collettiva fra tutti i paesi. Qualcosa di simile a ciò che fu creato per l’Europa dalla Conferenza di Helsinki del 1975: impedì alla Guerra Fredda di debordare in un conflitto vero nel vecchio continente.
Tuttavia, guardando la mappa politica del Medio Oriente quella di Helsinki è un’ipotesi molto lontana: troppe milizie (quelle che la burocrazia della geopolitica chiama “attori non statali”), troppe ambizioni nazionali, troppa ingerenza delle religioni perché si possa pensare a una struttura di sicurezza collettiva accettata da tutti. Anche le riforme del principe ereditario Mohammed bin Salman, che potrebbero diventare un fatto nuovo, devono in realtà essere ancora accettare dai sauditi: il passaggio dal rigido estremismo religioso del wahabismo, al rinnovamento sociale e la modernizzazione, non è ancora una certezza.