“Qualcuno può chiedere ai dirigenti israeliani quale è il loro obiettivo finale, a parte le guerre, le guerre e le guerre?”, chiedeva alle Nazioni Unite Ayman Safadi, il ministro degli Esteri giordano. Anche domandando, e che si ottenga o meno una risposta, l’evidenza sembra dimostrare che lo Stato ebraico – questo governo – non conosca alternative alla guerra.
I discorsi televisivi di Benjamin Netanyahu, direttamente ai suoi presunti interlocutori, più che una prova di forza sembrano il segnale di un disturbo psicologico. Al popolo iraniano ha detto che la loro libertà è imminente; ai libanesi che presto Hezbollah non determinerà il loro futuro. Non soddisfatto, si è rivolto all’Onu, all’intera comunità internazionale – superpotenze, Global South, paesi poveri e in via di sviluppo – intimando di ritirare “adesso”, i caschi blu dal Sud del Libano. Il senso del messaggio successivo, per ora l’ultimo, è stato: siete in mezzo ai nostri combattimenti, peggio per voi.
La caduta del regime militar-religioso iraniano e la scomparsa di Hezbollah, sono auspicate da molti. Analizzando lo stato del mondo, Richard Haas, presidente emerito del Council on Foreign Relations di New York, sostiene che oggi “c’è più capacità in più mani in un mondo dove le forze centrifughe sono molto più forti di quelle centripete. Il Medio Oriente è l’esempio primario di questa pericolosa frammentazione”.
Ma la soluzione non è pensare che la forza militare con la quale Israele colpisce anche donne, bambini, palestinesi che non sono di Hamas, libanesi di sette diverse da quella sciita (ed eventualmente caschi blu), possa rendere il Medio Oriente un posto migliore. Netanyahu è diventato una specie di Dottor Stranamore pronto a bombardare chiunque si frapponga al suo grande disegno.
Sono sicuri gli israeliani che non ci sia un’alternativa politica, diplomatica, per spezzare il pericolo che viene da Gaza, dalla Cisgiordania e dal Libano meridionale? Israele è davvero il paese solo che la sua hasbara’ (propaganda) denuncia per legittimare la sua violenza?
Esattamente il 7 ottobre 2023, l’articolo di copertina di The Economist era dedicato alla regione. Sottolineava la sua “nuova (e relativa) calma: un cessate il fuoco ha acquietato gli otto anni di guerra in Yemen. Iran e Arabia Saudita hanno concordato di attenuare la loro contesa quarantennale. Il Qatar ha sanato le relazioni con i vicini”.
Quello stesso giorno ci ha pensato Hamas a far precipitare il Medio Oriente nel suo solito caos. Tuttavia i dati che The Economist riportava, rimangono: il 36% della produzione mondiale di petrolio, il 46 delle esportazioni, il 22 del gas naturale e il 30 di GNL vengono dalla regione. Il 30% dei containers del mondo passano per Suez, il 16 degli aerei cargo dagli aeroporti del Golfo. Il 55% dei mediorientali hanno meno di 30 anni, i paesi Ocse sommati, 36.
Regni ed emirati del Golfo e Israele hanno il 14% della popolazione regionale ma il 60 del suo Pil, il 73 delle esportazioni, il 75 degli investimenti internazionali diretti. La collaborazione è nelle cose, serve solo la stabilizzazione politica. “Tutti noi”, diceva ancora il giordano Safadi all’Onu, insieme agli altri rappresentanti dei paesi arabi, “siamo pronti a garantire la sicurezza d’Israele nel contesto di una fine dell’occupazione che permetta la nascita di uno stato palestinese”.
Per quanto oggi sia molto difficile da immaginare, l’alternativa alle guerre senza fine è banalmente chiara. La sottolineava qualche giorno fa anche il ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan: “Abbracciando la soluzione che permette ai due popoli di coesistere in pace, possiamo smantellare il circolo di violenza che ha intrappolato le due parti da troppo tempo”.
Anche molti israeliani dall’inoppugnabile sionismo hanno tentato di farlo. Moshe Dayan fu il primo. Shimon Peres aveva costruito le prime colonie, modernizzato le forze armate e creato l’atomica, poi diventò l’uomo della pace. Così Yitzhak Rabin che nella prima intifada ordinava di “spezzare le ossa” ai palestinesi. Nessuno aveva ucciso più arabi di Ehud Barak e nessuno è andato così vicino alla pace. Ariel Sharon, conquistatore di terre arabe, si è ritirato da Gaza. Ehud Olmert nato nel Likud e Tsipi Livni, figlia di un terrorista ebreo, hanno offerto ai palestinesi la migliore pace possibile.
Raramente i leader palestinesi hanno colto le opportunità e difficilmente ne avranno dall’attuale governo israeliano. Ha scritto il quotidiano Ha’aretz: “Questa leadership non offre un solo messaggio di speranza. E’ incapace di immaginare una visione sostenibile per un Israele che viva in pace con i suoi vicini”.