Kamala for president

Non sei niente ma puoi diventare tutto”, diceva John Adams, spiegando il ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti: lo era stato per due mandati, all’ombra di George Washington. Poi, nel 1797, Adams fu eletto presidente ed ebbe tutto il potere. Potrebbe essere il destino di Kamala Harris. Da invisibile numero due, al ruolo di presidente: una specie di dittatore democratico, nonostante i pesi e contrappesi creati nel corso della storia americana per circoscriverne l’autorità.

Tutto lascia credere che alla fine la candidata democratica sarà Harris. Ma è ancora da vedere se avrà le qualità per vincere; e soprattutto se il ritiro dalla corsa elettorale di Biden sia stato deciso in tempo per costruire una candidatura forte, che impedisca la vittoria di Donald Trump, oggi apparentemente certa.

E’ un momento delicato per i democratici: il ritiro di Biden è stata una svolta necessaria per sperare di vincere a novembre. Ma ha rischiato di spaccare il partito se si fosse aperta una corsa incontrollata fra candidati troppo ambiziosi. Nel 1968 la convention di Chicago, la stessa città dove dopo ferragosto i democratici dovranno confermare il loro candidato alla presidenza, fu una caotica battaglia interna. Quello scompiglio avrebbe poi contribuito in modo determinante, a novembre, alla vittoria del repubblicano Richard Nixon.

Ricordando il precedente, il partito sembra sempre più orientato ad affidare il compito non facile a Kamala Harris: era già in corsa, condivideva con Biden programmi e finanziamenti. Si potrebbe dire che da tre anni non dava notizie di se, all’ombra del presidente. Ma è difficile trovare nella storia un vice che si sia fatto notare: è la carica presidenziale che eventualmente trasforma il numero due dal nulla a “diventare tutto”.

Tuttavia leader democratici importanti (Barack Obama, Nancy Pelosi e Chuck Shumer, il leader della maggioranza in senato) non hanno nascosto le loro perplessità: pensavano fosse stato meglio che la nomina di Harris passasse attraverso una verifica dei quasi 4mila delegati alla convention. Che insomma ci fossero un paio di concorrenti.

La candidatura “d’ufficio” assomiglia a un’incoronazione. Come è accaduto alla convention repubblicana: Trump è stato consacrato come un monarca e il suo vice Vance come il principe ereditario di MAGA. Un semplice trasferimento dei compiti da Biden ad Harris rischia di essere una specie di sequel del mediocre spettacolo offerto una settimana fa dal Partito repubblicano.

Quello che invece dicono i sondaggi da mesi è che l’elettore indipendente, la maggioranza di coloro che il 5 novembre andranno ai seggi, non vuole votare Trump e pensa che Biden sarebbe una scelta sbagliata. Fino a domenica i due candidati presidenziali e i loro apparati elettorali, erano in guerra con la realtà: sia pure per ragioni diverse, gli elettori non volevano l’uno né l’altro. I repubblicani continuano ad essere in guerra, convinti che Trump sia una specie di unto del Signore. Joe Biden e il partito democratico a quella realtà si sono finalmente arresi.

Molti anni fa, nell’America governata dai bianchi, anglosassoni e protestanti, i wasp, si diceva che un nero, un ebreo o un italiano non avrebbero mai potuto diventare presidente degli Stati Uniti. Non venivano indicati anche ostacoli di genere ma è scontato che in quell’America le donne fossero escluse di default.

Barack Obama aveva eliminato la prima ragione di esclusione. Kamala Harris, se alla fine vincerà la contesa col suo partito e poi con l’America, romperebbe una montagna di tabù. Sua madre era un’indiana del Tamil Nadu, suo padre un caraibico di origini africane. Asiatica e africana al tempo stesso. Se poi scegliesse come vice-presidente il governatore della Pennsylvania

Josh Shapiro, l’eventuale ticket vincente aprirebbe le porte della Casa Bianca anche a un ebreo. Continueranno a restare fuori dal potere gli americani di origine italiana, segnati dal marchio superato ma resistente della mafia.

Se dunque sarà Kamala Harris la candidata democratica, più delle sue origini, conterà la scelta del suo vice. Essendo donna, dovrà scegliere un uomo; e come liberal della California, le servirà un profilo moderato, possibilmente di uno stato storicamente conteso del Mid-West. Per quanto più di due secoli fa John Adams avesse ragione sul ruolo, i compiti e la visibilità di un vice-presidente, la scelta del ticket è sempre un complicato lavoro di equilibrio. Solo Donald Trump si è scelto un clone come erede.

  • carl |

    Dall’insignificanza al suo contrario.. Dall’invisibilità alla visibilità mediatica.. Garantendo la continuità presidenziale statunitense e continuando a procedere funambolicamente (col bastone da equilibrista in mano) su quella corda tesa tra i poteri e contropoteri o, come dice Tramballi, i pesi ed i contrappesi creati nel corso della storia per limitare il potere del cosiddetto sovran-monarca presidenziale degli USA… D’altra parte il dott Tramballi, definisce Vance “erede..principe ereditario”… Ed in effetti, se si pensa all’età del Donaldo, quest’ultima definizione è calzante.. Beninteso, non sto pronosticando e men che meno augurandogli il passaggio a miglior vita.. Ma così come io stesso a volte ragionevolmente penso, avendo superato la vita media statistica occidentale, devo essere cosciente del fatto che sia io che Trump (e tutti coloro che l’hanno superata) potremmo improvvisamente venir meno del tutto naturalmente.. No?
    Ma ecco che possono sorgere un paio di interrogativi e cioè che se Trump venisse meno dopo essere stato nuovamente eletto, il neo presidente sarebbe un “marine”.. Beninteso non è detto che il corpo dei marines avrebbe una “testa di ponte” alla Casa Bianca, come avvenne con i pretoriani delli tempi antichi.. E tuttavia..?
    A casa nostra invece, se venisse meno quel brav’uomo di Mattarella subentrebbe automaticamente un LaRussa… Che si dice conservi devotamente un busto dell’uomo che, come disse “papale papale” (ma assai poco papalmente) un papa, la Provvidenza avrebbe, ecc. ecc. e che invece sappiamo che cosa combinò e come passò alla storia..

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