Sarebbe un futile esercizio determinare quando e come questa guerra finirà. Ma finirà. Dal 1948 ci sono state quattro guerre arabo-israeliane, due in Libano, due Intifade palestinesi, cinque conflitti a Gaza. La gran parte a fatica è durata un mese, una sei giorni scarsi. Questa è al venticinquesimo.
Sono invece le conseguenze di questi conflitti ad essere senza fine. Ogni guerra e ogni rivolta ha aperto la strada alla crisi successiva. Anche se Israele fosse capace di sradicare Hamas, come promette, lo scontro non sarà l’ultimo. Ma prima ancora delle eventuali azioni di altri soggetti, è per Israele che incomincerà una fase di grande incertezza.
Appena finirà la guerra, sarà costituita una commissione d’inchiesta. Dovrà stabilire le cause e le responsabilità dell’attacco di Hamas del 7 ottobre: perché l’intelligence non l’aveva previsto? Perché le difese non erano adeguate? Verranno fatte molte altre domande.
Nel 1973, quando Israele fu colto di sorpresa dall’attacco egiziano e siriano, Golda Meir si dimise prima che qualcuno glielo imponesse. Dai comportamenti e dalle dichiarazioni di questi giorni, sembra che Bibi Netanyahu non abbia intenzione di seguirne l’esempio. Per salvarsi il premier ha già provocato gravi tensioni con i militari nel gabinetto di guerra. Mestando e mistificando, lotterà come sempre per restare al potere senza chiedersi quali saranno i costi per la stabilità d’Israele.
Il conflitto di Gaza aveva fermato le grandi manifestazioni del sabato sera. Centinaia di migliaia d’Israeliani scendevano in strada contro il governo in difesa dell’indipendenza del sistema giudiziario. In gioco c’era molto di più: quale democrazia doveva essere quella israeliana; quanto il sistema sarebbe rimasto quello di un paese laico e non rigidamente confessionale. Israele sarebbe diventata la teocrazia ebraica che i partiti ultra-ortodossi e quelli nazional-religiosi ancor più pericolosi, volevano imporre? Le domande non hanno ancora risposte.
Dopo la guerra, alla luce delle responsabilità che verranno trovate, è altamente probabile che Israele torni a votare. Dall’aprile del 2019 lo ha già fatto cinque volte. Prima del conflitto a Gaza, durante lo scontro sul sistema giudiziario, i sondaggi mostravano che se si fosse andati a votare, i sostenitori della democrazia avrebbero vinto. Ma per pochi seggi. Lo scontro aveva pericolosamente diviso il paese in due fazioni quasi uguali. Alcuni sostengono che il contrasto interno sia la causa dell’impreparazione del paese all’assalto di Hamas.
Quando la guerra di Gaza sarà finita, un’altra questione irrisolta, ancora più dirompente, verrà posta agli israeliani: uno stato palestinese. Ignorata per anni, la questione dei due stati, uno accanto all’altro, è improvvisamente tornata all’ordine del giorno. Dall’inizio della crisi di Gaza non c’è paese né istituzione multilaterale che non invochi un orizzonte politico per il conflitto.
Un ritorno a Oslo, alla trattativa e agli accordi realizzati dal 1992 al 2000, per molti israeliani – anche moderati – è irrealizzabile. Quando a Gaza sarà finita, i partiti più estremisti, i coloni che assaltano e uccidono impuniti i palestinesi in Cisgiordania, contano di annettere, non di restituire i territori occupati. Una di loro, Orit Strock, ministra per la Missione Nazionale (un nome da regime totalitario), sostiene addirittura quanto sia “evidente che Gaza è parte della Terra d’Israele e un giorno vi torneremo”.
Mentre a Gaza si combatteva, la settimana scorsa il ministro per la Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir distribuiva con soddisfazione nuove armi ai coloni, estremisti come lui. Contro chi le userebbero se un governo israeliano riprendesse la trattativa con i palestinesi e ordinasse lo smantellamento di alcune colonie?
Un nuovo governo sarebbe probabilmente guidato da Benny Gantz, ex capo di stato maggiore e ministro della difesa; e da Yair Lapid, senza un curriculum militare ma pieno d’idee politiche. Ricordano Ytzhak Rabin e Shimon Peres. E’ suggestivo pensarlo, difficile che lo siano.