Nella sua pescheria Oz è rimasto solo. Per precauzione, da giorni i due lavoranti palestinesi sono a casa. Il figlio Tamer è stato richiamato, è con la sua unità sulle alture del Golan, a Nord. E’ così in tutto il mercato, ogni giorno: saracinesche chiuse, attività limitata. Venerdì c’era un po’ più di gente. Ma il giorno che precede lo Shabbat era una festa mobile a Mahane Yehudà, prima della guerra.
In una città tanto divisa da essere due, ebrei e arabi non si sono mai amati. Tuttavia l’antico mercato coperto di Mahane Yehudà era l’unico luogo di Gerusalemme dove un melting pot fra israeliani e palestinesi sembrava possibile. Anche le grida dei venditori erano nelle due lingue.
Prima del 7 ottobre questa era la città di Dio, gloriosa e imperfetta; seduta sui mausolei delle tre religioni, ostili l’una all’altra; caotica, divisa, vitale. Ora è cupa, meno vissuta, insolitamente silenziosa per essere una città di 970mila abitanti: 60% ebrei, 40 palestinesi. Dopo più di due settimane di guerra, Gerusalemme ha cercato di tornare alla normalità. Ma fatica ad essere quella di prima, sia nella parte occidentale ebraica che in quella orientale araba.
Eppure è un luogo di conflitti da millenni. Solo negli ultimi 75 anni è stata il campo di battaglia di due guerre arabo-israeliane e due Intifade palestinesi. Dovrebbe essere assuefatta, sempre sulla prima linea del lungo confronto tra i due popoli.
Nessuno, in realtà, si abitua a questo. Al mercato, per strada, nei caffè, d’improvviso sono scomparsi i giovani, richiamati in servizio al fronte. Mancano anche i turisti: l’altro giorno al Santo Sepolcro dove di solito la coda dei pellegrini è sconfinata, c’erano solo una suora russa ortodossa e un sacerdote greco. Una religiosa cattolica filippina pregava in solitudine nella cappella dei francescani.
Gli amici, i commercianti abituali, dell’una e dell’altra parte salutavano sempre dicendo “shalom” o“ma salama”. Oggi alla fine della conversazione dicono tutti la stessa cosa: “stai attento”. Come se un pericolo incombesse dietro ogni angolo della città: un razzo di Hamas, un attentato, una spedizione punitiva di coloni, un arresto indiscriminato.
Nella parte israeliana della città c’è sempre stata una silenziosa accettazione del rischio di un attentato. Ma era un pericolo individuale. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, quel senso di pericolo è diventato collettivo, capace di mettere in discussione la sopravvivenza dello stato.
La città è tornata agli anni Sessanta, prima della clamorosa vittoria della guerra dei Sei Giorni del ’67, quando Israele si scoprì potenza militare. Allora si scavavano trincee in strada perché l’invasione nemica era una possibilità concreta. Il fronte era dove ora passa la linea veloce del tram che attraversa Gerusalemme da Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto, alle colonie ebraiche nei territori occupati, diventate periferia urbana.
E’ semplice passare nell’altra città, quella palestinese. Dal centro, percorrendo in discesa Hanevi’im, la via dei Profeti, si rotola davanti alla porta di Damasco della città murata. Prima però c’è il chiosco di Motti, il vecchio ebreo yemenita che fa i migliori falafel di Gerusalemme. Durante la seconda Intifada un kamikaze palestinese si fece esplodere fra i clienti.
Un centinaio di metri più giù, quasi sulla frontiera fra le due Gerusalemme – invisibile ma nota a tutti – c’è Abu Ahmed. Aggiusta e vende biciclette. I suoi clienti sono gli ebrei ultra-ortodossi del vicino quartiere di Mea Shearim. “I pochi che vengono ancora non mi guardano più con simpatia”, dice Abu Ahmed. “Ho sempre paura che qualcuno si voglia vendicare per il massacro di Hamas”.
E’ per questo che da oltre due settimane molti palestinesi ancora non tornano al lavoro a Gerusalemme Ovest. Nella Cisgiordania occupata e perfino nei vicoli della città vecchia, ronde di giovani coloni cercano arabi da assalire. Chi invece non riesce a tornare a Gerusalemme Est sono i palestinesi dei territori occupati. Conseguenza della guerra: le forze di sicurezza israeliane circondano la città con un cordone sanitario più stretto del solito. Davanti alla porta di Damasco e sui marciapiedi di Salah ed-Din, la via commerciale dell’Est, non ci sono più le vecchie venditrici di frutta e verdura che venivano dalla campagna con i loro abiti tradizionali. La città araba è ancora più vuota di quella ebraica.
La sensazione di precarietà e fragilità che gli ebrei non provavano dal 1967, i palestinesi invece la vivono ogni giorno, appunto da 56 anni: da quando sono sotto occupazione. Per Israele Gerusalemme è la sua capitale indivisibile; per i palestinesi e il resto del mondo no.
Ma un palestinese, Waleed Abu Tayeh, si è candidato sindaco alle imminenti elezioni municipali. Non era mai accaduto: i gerosolimitani arabi continuano a boicottare l’amministrazione ebraica nonostante non sia mai servito a nulla. Il Gran Muftì, la massima autorità religiosa, ha emesso una fatwa contro la scelta di Abu Tayeh. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese, non si è espresso, sa che la candidatura è una scelta saggia: finalmente permetterebbe ai palestinesi di determinare lo sviluppo cittadino anche in base ai loro interessi. Ma meglio non dirlo. Tuttavia il popolo di Gerusalemme potrà continuare a preservare l’orgogliosa separazione e coltivare il suo odio: le elezioni sono state rinviate a causa della guerra.