Improntata alla cautela e all’understatement di Saud al Faisal, per 40 anni capo della diplomazia del regno, mai l’Arabia Saudita avrebbe promosso e ospitato una conferenza di pace sulla guerra in Ucraina. E se mai l’avesse pensata, ancora pochi anni fa sarebbe arrivata una telefonata dal dipartimento di Stato americano: non è di vostra competenza.
Molte cose stanno cambiando. Anche nel Golfo. Nel 2017 re Salman aveva affidato al figlio Mohammed, appena trentenne, il compito di plasmare il futuro del regno. I risultati erano stati pessimi. L’eliminazione degli oppositori spesso con metodi raccapriccianti come il caso di Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nel consolato di Istanbul; la disastrosa guerra nello Yemen; la tortura di donne che chiedevano riforme che lui stesso avrebbe poi imposto. Joe Biden aveva definito il principe un “paria” internazionale.
Ma in questi pochi anni Mohammed bin Salman, MbS, l’erede al trono nei fatti già sovrano, ha studiato da leader e un po’ anche da statista. Ha capito l’utilità della moderazione e le opportunità che la geopolitica sta offrendo ben oltre i limiti mediorientali. Quando produci nove milioni di barili di petrolio al giorno e, a dispetto delle preoccupazioni sul clima, quest’anno le compagnie petrolifere spenderanno 500 miliardi di dollari per estrarre idrocarburi, il futuro è scritto sui muri.
L’obiettivo della conferenza sull’Ucraina non era la fine del conflitto (nessuna pace è possibile senza la Russia) ma il Global South. La definizione è generica: non indica un’organizzazione multilaterale né un’alleanza. E’ uno spazio in divenire creato dalla competizione fra Usa, Cina e Russia. Il loro confronto assomiglia a una nuova Guerra fredda ma diversamente dall’originale, non pretende alleanze. In qualche modo la geopolitica è più democratica, i paesi con i numeri necessari più indipendenti.
L’Arabia Saudita i numeri li ha per occupare l’immenso spazio generato nel Sud globale. Nel G20, il vertice sempre più importante nell’architettura internazionale, il Pil saudita è il sedicesimo: l’anno scorso era cresciuto dell’8,7% Negli ultimi due anni il valore dei fondi sovrani del Golfo è aumentato del 42%: oggi è di tremila miliardi di dollari. Entro la fine del decennio duemila di questi rappresenteranno la ricchezza del solo Saudi Public Investment Fund.
L’appropriazione dell’intero circuito mondiale del golf professionistico, l’acquisto di un gran premio di Formula1 e dei più cari calciatori in Europa, sono una forma di soft power, la parte meno importante del progetto saudita. A giugno c’era stata a Riyadh la decima conferenza economica arabo-cinese ma era come se gli arabi che contavano fossero solo i sauditi. Gli scambi commerciali fra i due paesi valevano quattro miliardi nel 2001, ora sono di 87.
Alla conferenza avevano partecipato 3mila imprese cinesi alcune sotto sanzioni americane. Ma gli Stati Uniti non hanno protestato. Dopo l’accusa politicamente prematura di “paria” a Mbs, il mantra delle superpotenze non è isolare ma conquistare il maggior numero possibile di protagonisti del Sud globale.
Pochi giorni prima del summit, il segretario di Stato Antony Blinken era stato a Riyadh per negare, come aveva già fatto Biden, un disimpegno dalla regione. Ridimensionamento, revisione delle priorità ma non smobilitazione: solo nel Golfo – in Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati, Arabia Saudita e Oman – esistono 22 fra basi e installazioni militari americane.
“Una nuova era di cooperazione”, aveva detto Xi Jinping a Riyadh, a dicembre. Ma la sua visita, più trionfale di quella precedente di Biden, segnalava una nuova presenza, non una sostituzione. “Chiunque voglia investire qui è il benvenuto”, aveva detto al New York Times il ministro dell’energia Abdulaziz bin Salman, fratello di Mbs. “Non esiste un grande disegno fra noi e la Cina: lavoriamo insieme su molte cose”. Ma Pechino non rimpiazzerà mai il ruolo americano di garante della sicurezza saudita.
La questione oggi è come rafforzare quel compito. Joe Biden sta cercando di convincere i sauditi a riconoscere Israele: una missione quasi impossibile con l’attuale governo nazional-religioso a Gerusalemme. Il presidente non gioca su un successo diplomatico per la ricandidatura alla Casa Bianca: nell’America di oggi è difficile che la politica estera porti voti.
L’ambizione è che il riconoscimento saudita – fondamentale per Israele, aprirebbe anche le porte dell’Indonesia e di altri paesi musulmani asiatici – porti Bibi Netanyahu a negoziare con i palestinesi, alla crisi di governo e a nuove elezioni.
La Palestina non è la sola richiesta saudita: il regno non ha mai amato i palestinesi ma difenderne la causa è un obbligo. MbS vuole che il regno acquisisca uno status di alleato strategico pari a quello che Israele ha con l’America, nuove armi e un programma nucleare civile. Anche su questo tavolo il gioco lo conduce MbS.
Il Sole 24 Ore, 11/8/23