Si chiamava Aryeh Shechopek, aveva 16 anni, un bel viso pulito. I genitori lo avevano portato a Gerusalemme dal Canada, dove era nato. La gente racconta che Aryeh era sempre pronto ad aiutare gli altri. L’altra mattina attendeva l’autobus per andare a scuola, quando a pochi metri da lui è esplosa una bomba piazzata da un palestinese non ancora individuato.
Fra i quasi 200 palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno nei Territori occupati dall’esercito o dai coloni israeliani, è piuttosto lunga la lista dei minorenni e di chi è stato assassinato a caso: innocente come Aryeh. Non tutti i palestinesi sono terroristi, come è indotta a credere da molti suoi leader, la maggioranza degli israeliani.
E’ da molto che sui giornali non trovate articoli su questa guerra a bassa intensità, che di tanto tanto si infiamma. E’ comprensibile stancarsi e disinteressarsi da tutto ciò che sembra senza tempo e senza fine. Altri conflitti più immediati ci minacciano. Ma ai più che umanamente se ne disinteressano, è giusto tentare di far sapere che nel frattempo il conflitto fra israeliani e palestinesi non si è mai fermato.
Le due bombe esplose a Gerusalemme sono preoccupanti, rappresentano un salto di qualità. Erano sei anni e mezzo che non accadeva un attacco di questo genere. Di solito gli attentati erano “artigianali”: un lupo solitario con una pistola, un coltello, un investimento con l’auto. Dall’inutile disastro della seconda Intifada, i palestinesi non erano più in grado di compiere operazioni di livello superiore.
Ma nei Territori e nella Gerusalemme araba occupata, la tensione non è mai calata. Da mesi e mesi città come Jenin e Nablus a Nord, ed Hebron a Sud, nella notte diventano campi di battaglia con morti e feriti. L’esercito israeliano entra per arrestare o sempre più spesso per uccidere: le regole d’ingaggio si sono molto abbassate. I palestinesi si organizzano e resistono. Più che al comando delle solite sigle – Hamas e Jihad Islamica – i nuovi protagonisti sono milizie improvvisate, disperate, incontrollabili. L’Autorità di Ramallah, il governo di ciò che resta dell’autonomia palestinese, è inesistente.
I palestinesi non hanno quasi mai cercato di comprendere la psicologia del popolo ebraico, costruita dalla sua drammatica storia; come gli israeliani si sono quasi sempre rifiutati di comprendere le ragioni dell’ostilità del popolo palestinese. E’ questo il nodo del conflitto che anziché diluire, il tempo consolida.
Gli attentati terroristici non sono mai serviti alla causa nazionale palestinese. Al contrario, hanno spinto gli israeliani sempre più a destra e consolidato la convinzione che dell’avversario si debba negare l’esistenza. Secondo l’Israel Democracy Institute nella società si è radicalizzata la richiesta dell’uso della forza militare: il 71% è convinto che si debba eliminare il terrorista che uccide un israeliano (nello stato ebraico non esiste la pena capitale, l’unica eccezione fu per Adolf Eichmann, nel 1962); il 55 pensa che il “terrorista” debba essere eliminato sul posto, anche se a terra e ammanettato.
Così gli israeliani nel loro atteggiamento mentale negano che il popolo palestinese, identificato in una grande organizzazione terroristica, possa avere il loro stesso diritto a uno stato-nazione. Non volendo o non sapendo che fare, la questione palestinese è scomparsa dal loro orizzonte. Niente soluzione dei due stati, niente stato bi-nazionale. Udi Dekel dell’Istituto Studi per la Sicurezza Nazionale, INSS, ha calcolato che in questa seconda ipotesi, sommandosi alla condizione palestinese, il Pil procapite israeliano crollerebbe da 51.500 a 34.500 dollari. Quello attuale palestinese è di 3.600, giusto per ricordare la voragine che separa i due popoli nella loro vita quotidiana.
In questi ultimi dieci anni Israele ha avuto molte elezioni ma in nessuna la questione palestinese ha avuto una qualche rilevanza. Gli israeliani la ignorano. E l’attentato che di tanto in tanto viola questo rifugio mentale, serve solo come conferma che dall’altra parte ci sono solo terroristi.
Non solo i palestinesi non sono terroristi. Dal Mediterraneo al fiume Giordano sono diventati più degli israeliani, sebbene “burocraticamente” divisi in abitanti di Gaza, cittadini palestinesi d’Israele, della Gerusalemme Est araba, dei Territori occupati: 7,4 milioni a 7 milioni circa.
Secondo il saggista Yuval Noah Harari, gli israeliani stanno creando una “soluzione a tre classi”: gli ebrei con pieni diritti; alcuni arabi cittadini d’Israele, con alcuni diritti; gli altri arabi, la maggioranza, con pochi o senza diritti.
Esiste un solo paese che potrebbe spingere, anche minacciando, israeliani e palestinesi a ricostruire un orizzonte negoziale. Ma l’amministrazione Biden non ha alcuna intenzione di occuparsene: la storia della diplomazia dice che il conflitto trionfa sempre. Il premier uscente Yair Lapid aveva incominciato a migliorare le condizioni dei palestinesi: non per illudersi che l’economia potesse sostituire la politica ma cercando un miglior terreno sociale sul quale ricostruire il negoziato quando sarebbe stato possibile.
L’iniziativa di Lapid non è stata illusoria. Se l’anarchia armata nei Territori non si è trasformata in terza Intifada, è perché la maggioranza dei palestinesi non vuole perdere il lavoro ottenuto in questi mesi.
Ma il risultato delle ultime elezioni ha chiarito che fra gli israeliani si rafforza la spinta nazional-religiosa. Il prossimo governo di estrema destra prenderà misure anche più drastiche del semplice ignorare l’esistenza dei palestinesi. Forse a Jenin e Nablus la gente smetterà di osservare solamente, e ricomincerà a partecipare. I palestinesi uccideranno altri Aryeh, finendo solo col rafforzare la determinazione dell’avversario; e gli israeliani uccideranno molti più ragazzi nelle strade della Palestina, negando loro il diritto di ribellarsi a un’occupazione sempre più brutale.