La finlandizzazione è una possibilità per l’Ucraina? è stato chiesto a Emmanuel Macron dopo la sua navette diplomatica fra Kiev e Mosca. “Si, è un’opzione sul tavolo”, ha risposto il presidente francese. E’ evidente che Volodymyr Zelesky e la maggioranza dei suoi concittadini sceglierebbero la Nato. Ma se fra neutralità e Alleanza Atlantica la differenza a favore della seconda è un’aggressione russa, ripercorrere il vecchio sentiero della Finlandia è un’opzione.
La questione dell’ingresso nella Nato “al momento non è rilevante”, ha concluso il cancelliere tedesco Olaf Scholz, a Kiev dopo Macron: interpretando l’incontrovertibile volontà di due terzi d’Europa, dell’amministrazione Biden e perfino di tutti gli alleati asiatici degli Stati Uniti. Della crisi ucraina, delle minacce di Putin e della Nato aveva detto la sua qualche giorno fa anche il premier australiano Scott Morrison.
Ma nel 2022, un prodotto della Guerra Fredda a 33 anni dalla sua fine, può ancora funzionare come pensa Macron?
Mettersi nei panni dell’altro sarebbe l’esercizio più utile al mondo se non fosse così difficile da praticare fra entità ostili. La vera ragione della caparbia resistenza del conflitto israelo-palestinese a una trentina di piani di pace dal 1947 ad oggi, è perché i due popoli non hanno mai voluto provarci davvero.
Americani e russi lo hanno fatto alcune volte e le cose sono andate abbastanza bene per loro e per il mondo intero. Ora – ormai da quasi un decennio – sulla questione ucraina sembra non siano più capaci di comprendere l’uno le ragioni dell’altro.
L’America capirebbe meglio cosa provano i russi riguardo all’Ucraina, se si chiedesse come reagirebbe se, diciamo fra dieci anni, la Cina si alleasse col Messico e costruisse una base a un centinaio di chilometri a Sud del Rio Grande. E se Vladimir Putin si mettesse nei panni di Joe Biden alla guida di una democrazia con un’opinione pubblica e un’opposizione cui rispondere, rimanderebbe nelle caserme oltre gli Urali i 100mila uomini alle frontiere ucraine.
L’Ucraina appartiene a quei casi politici dalla collocazione geografica complicata: su uno stretto marittimo strategico, su un altipiano fondamentale, a cavallo fra due continenti, sull’instabile faglia che separa due potenze ambiziose (è da qui che nasce la definizione oggi abusata di geo-politica).
Anche la Finlandia è stata uno di quei casi. Eppure, per tutta la durata della Guerra fredda ai confini con Unione Sovietica, è rimasta neutrale: con poche rinunce, mantenendo vivo un sistema democratico e parlamentare.
Sauli Niistro, presidente finlandese al secondo mandato, che il New York Times definisce “interprete di una terra di frontiera fra Est e Ovest”, pensa che la neutralità sia ancora un prodotto commerciabile. Anche se dopo l’adesione alla Ue nel 1995, la Finlandia non intende rinunciare al diritto di entrare nella Nato. Un giorno o l’altro. Finlandizzazione, per Niistro, è un modo per tenere alta l’attenzione sulla Russia, senza provocarne la storica aggressività. Gli zar, Stalin, Putin: a Helsinki forse ne sanno quanto i polacchi.
Ai tempi della Guerra Fredda l’Alleanza Atlantica non era particolarmente soddisfatta della finlandizzazione, ma la neutralità ha tenuto il paese ancorato all’Occidente. E’ diventato un modello condiviso di equilibrio in circostanze politiche dalla geografia complicata. Diversamente dalle repubbliche baltiche che avevano subìto la durezza del dominio sovietico, la Finlandia ha protetto la sua neutralità anche dopo la fine della Guerra Fredda. L’unica tentazione di entrare nella Nato l’ha avuta in questi mesi, a causa dei comportamenti di Putin.
La capacità di accettare la neutralità di un paese conteso, cioè finlandizzazione, non è che realismo politico in purezza. E la realpolitik è lo strumento essenziale per realizzare un equilibrio condiviso fra grandi potenze per natura concorrenti.
La Finlandia è anche un esempio utile per Putin da ricordare, se volesse davvero arrivare a Kiev. I libri di storia la chiamano Guerra d’Inverno: fu combattuta a 40 gradi sotto zero ma per fortuna durò poco, dal novembre 1939 al Marzo 1940. L’Armata Rossa aveva 2.500 carri armati e 3.800 aerei; i finlandesi 32 e 114. Persero e furono costretti a consegnare a Stalin l’11% del loro territorio: ma ebbero 26mila perdite, i sovietici 300mila. La vera vittoria finlandese fu la salvezza del suo sistema democratico: da allora Stalin e i successori ne rispettarono l’indipendenza. Non fu poca cosa: tutti gli altri paesi europei vittime dell’imperialismo sovietico, furono invece trasformati in satelliti.
Una finlandizzazione 2.0 dell’Ucraina, una versione rinnovata dell’originale, ristabilirebbe un equilibrio continentale per salvaguardare le libertà conquistate dai paesi dell’Est d’Europa; dare il tempo al’Ucraina di diventare una democrazia funzionante; eventualmente a Ungheria e Polonia di tornare ad esserlo. E per assicurare la Russia che non avrà un altro paese Nato alle frontiere, almeno per questa generazione.
In una simile neo-finlandizzazione, gli Stati Uniti potrebbero tornare a riconoscere alcune cose essenziali: che l’Ucraina non è un fondamento strategico per l’America ma lo è per la Russia; che fra Europa, Golfo Persico/Medio Oriente ed Estremo Oriente, le tre priorità geopolitiche americane, l’Europa resta fondamentale non meno della Cina; e che il “balance of power”, il mantenimento di un equilibrio fra potenze, in questo continente non è un esercizio della diplomazia del XIX secolo ma è ancora una pratica obbligatoria.
Sia pure in maniera diversa fra loro, Barack Obama e Donald Trump non ragionavano in termini di “balance of power”. Putin invece si, ed è per questo che gli Stati Uniti hanno impiegato mesi a capire e finalmente anticipare le sue mosse sull’Ucraina. Rispondendo a Putin con armi economiche, militari e contemporaneamente diplomatiche, Joe Biden si è adattato alle regole del vecchio gioco imposto dal russo.