“Dall’accampamento dei Filistei uscì un campione chiamato Golia di Gat. Era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di 5mila shekel. Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle…..Davide cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e con la pietra Lo colpì”.
Antico Testamento, Samuele 1,17
Lo scorso 26 gennaio l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilat Erdan, si è presentato al Consiglio di Sicurezza mostrando una pietra. E’ stata raccolta, ha spiegato, nei Territori occupati (lui non li ha chiamati in questo modo): dei palestinesi l’avevano lanciata contro un’auto israeliana.
Sempre con la pietra nella mano destra sollevata, Erdan aveva criticato “la parzialità del Consiglio di Sicurezza”. In particolare la sua “assoluta sottovalutazione del terrorismo lancia-pietre”. Nella consueta conferenza stampa dopo la seduta al Palazzo di Vetro, un giornalista aveva chiesto a una portavoce dell’Onu se, nel caso ci fosse una risposta del rappresentante dell’Olp, gli sarebbe stato permesso presentarsi con un bulldozer uguale a quelli che usano gli israeliani per radere al suolo le case dei palestinesi. O con uno dei fucili-mitragliatori con i quali affrontano i lanciatori di pietre, a volte uccidendoli.
”Erdan invita a un legittimo paragone” ha commentato Ian Williams, già presidente della Foreign Press Association all’Onu. “Al confronto fra i ragazzi palestinesi e il Golia israeliano, povero e senza difesa dai voraci lanciatori di pietre, protetto solo da droni, missili, aerei e carri armati”.
Un diplomatico, anche il rappresentante dei generali di Myanmar o della Siria di Bashar Assad, dovrebbe cercare equilibrio e intelligenza nel perorare la causa del suo paese. Se l’israeliano si fosse presentato con i resti di un razzo di Hamas o le foto di nuovi missili iraniani forniti a Hezbollah libanese, sarebbe stato ascoltato con attenzione.
Forse accortosi di non averla, e nel tentativo di dare una certa gravitas alla sua denuncia, Erdan ha aggiunto: “Come reagirebbero (i membri del Consiglio di Sicurezza, n.d.r.) se una pietra di queste finisse sui loro veicoli?”. L’egiziano al-Sisi e Vladimir Putin già avevano esteso la qualifica di terrorista a chiunque si oppone ai loro regimi. Erdan l’ha allargata a chi ammacca le carrozzerie.
Privo di senso della misura, Gilad Erdan è un politico, non un diplomatico. E’ uomo del Likud e di Bibi Netanyahu che, mandandolo in America (promoveatur ut amoveatur), gli aveva dato il ruolo di ambasciatore all’Onu e a Washington. Il nuovo governo gli ha tolto la seconda carica affidandola a Mike Herzog, un diplomatico vero.
L’ambasciatore con la pietra in mano, un Golia travestito da Davide, sarebbe una parodia se non fosse uno dei molti segni della tragedia che imprigiona due popoli. La faziosità di Gilad Erdan nel descriverla – i sassi degli uni e nient’altro – dimostra quanto una parte d’Israele si rifiuti di riconoscere una qualche dignità agli avversari: esistono i terroristi, non i palestinesi. A loro non è riconosciuto il diritto di opporsi all’occupazione: il conflitto esiste solo per gli israeliani quando decidono di entrare di notte nelle case palestinesi per arrestare i lanciatori di sassi non colti sul fatto ma fissati dalle telecamere.
Perché non c’è nulla che i palestinesi facciano senza che la tecnologia del Grande Fratello israeliano veda. Se, come è stato scoperto, con i dispositivi di NSO la polizia spiava illegalmente politici e giornalisti israeliani, possiamo immaginare quanto pervasiva sia nei Territori occupati, dove la democrazia israeliana non esiste.
Quindici anni fa “Bulli” Yehoshua, il grande scrittore, annotava su Yedioth Ahronoth che dall’inizio dell’occupazione, nel 1967, esistevano due sistemi paralleli: quello “normativo, costituzionale, democratico dello Stato d’Israele e, dall’altro lato, i Territori dove le norme morali e di polizia erano completamente differenti”. Le cose non sono migliorate.
Provate per una volta a immedesimarvi nei palestinesi: da un lato perseguitati dall’occupazione e dalla repressione israeliana; dall’altro strangolati da repressione, arresti e corruzione dell’Autorità di Ramallah o da Hamas a Gaza: poteri mummificati ai quali l’occupazione israeliana serve per nascondere la loro inettitudine.
Erdan ha citato 1.775 attacchi con le pietre. Ma non le migliaia di “arresti preventivi”: oggi sono circa 500 i palestinesi chiusi nelle prigioni israeliane a tempo indeterminato e senza conoscere i capi d’accusa.
L’ambasciatore non ha nemmeno citato gli assalti – meticolosamente raccontati dal giornale Haaretz – dei coloni israeliani che attaccano con pietre, bastoni e spesso fucili, i villaggi palestinesi; aggrediscono i rabbini pacifisti che difendono gli uliveti palestinesi, e a volte anche i militari: le poche volte che tentano d’intervenire. Uccidono, feriscono e distruggono con la certezza dell’impunità.
“Questi attacchi sono un affronto alle leggi d’Israele e ai valori ebraici”, scrivono sette fra le più importanti organizzazioni ebraiche d’America, in una lettera al governo israeliano, nella quale denunciano “la costante crescita e l’intensificarsi” delle violenze dei coloni. Riferendosi alla loro brutalità, Michael Sfard, avvocato israeliano che difende le cause dei palestinesi, si chiede da ebreo “come abbiamo prodotto fra di noi delle repliche dei nostri persecutori?”.
Polizia ed esercito per lo più guardano: in un caso fotografato, un soldato ha ceduto il suo fucile a un colono. Dei 263 casi di aggressione denunciati fra il 2018 e il 2020 (nella gran parte i palestinesi non denunciano o non viene loro permesso di farlo), 221 sono stati chiusi senza risultato. Degli altri in 10 ci sono state incriminazioni, per il resto si continua a indagare: ormai da due anni.
Nel confronto senza fine di questa tragedia senza fine, molti trovano sempre una spiegazione “storica” alla condizione dei palestinesi. Nel 1947 rifiutarono il piano di spartizione Onu. Vero. Ma negli accordi di Oslo del 1993 ammisero l’errore, negoziando uno stato arabo sul 22% della vecchia Palestina del Mandato inglese: la spartizione del ’47 prevedeva il 43%. Nel 1990 i palestinesi scatenarono la seconda Intifada, rifiutando la pace di Oslo. Ancora vero. Ma quegli accordi non prevedevano il congelamento delle colonie ebraiche che nel decennio successivo raddoppiarono, rubando altra terra ai palestinesi.
E’ sempre stato così in questa tragedia: per ogni accusa c’è una contro-accusa. Torti e ragioni alla fine si equivalgono ma è difficile che una parte riconosca i propri torti e le ragioni dell’altra. Per questo non finirà mai.
Prima di diventare politicamente famosa, intifada in arabo significava scuotersi: come fa un cane quando è bagnato. Nella prima come nella seconda Intifada, i palestinesi pensavano di riuscire a scuotersi di dosso gli israeliani. Non ci riusciranno mai. Ma a dispetto dell’ambasciatore Erdan, neanche l’Intifada degli israeliani avrà mai successo: non potranno liberarsi dei palestinesi. Qualche tempo fa il premier palestinese Mohammad Shtayyeh spiegava a un diplomatico della Ue che gli israeliani “possono fare la pace con gli Emirati Arabi. Tuttavia, quello che vedono ogni mattina non è la Grande Moschea di Abu Dhabi ma la cupola dorata del Duomo della Roccia di Gerusalemme”.
Ps – Amnesty International ha stabilito per il secondo anno che Israele pratica l’apartheid verso i palestinesi. Non commento. Riporto ciò che nel 2016 disse agli israeliani John Kerry, segretario di Stato di Barack Obama, alla fine dell’ennesimo negoziato fallito. “Se c’è un solo stato avrete milioni di palestinesi che vivranno in enclaves segregate nel mezzo della West Bank: senza veri diritti politici, con sistemi giudiziari, educativi e di trasporto separati, con grandi disparità di reddito, sotto un’occupazione militare permanente che li priverà della gran parte delle libertà fondamentali. Separati e disuguali, è quello che avrete. E nessuno può spiegare come possa funzionare. Un israeliano accetterebbe di vivere in quel modo? E il mondo lo accetterebbe?”.