“Non c’è un processo diplomatico con i palestinesi né ce ne sarà uno”, si era affrettato l’altro giorno a commentare il portavoce di Naftali Bennett, il premier israeliano. Hamas da Gaza aveva lanciato il suo anatema contro ogni dialogo con “l’occupante sionista”.
La causa di tanto trambusto nella calma palustre del conflitto israelo-palestinese, ignorato fino alla prossima fugace ma sanguinosa esplosione, era stato un incontro lunedì scorso a Ramallah fra il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen e il ministro della difesa Benny Gantz. I più si stupiranno: cosa ci dovrebbe essere di tanto straordinario se si incontrano i leader dei due campi, in nome di due popoli sovrapposti sullo stesso piccolo lembo di terra, il cui futuro dell’uno è anche nelle mani dell’altro?
Ma non dovrebbero stupirsi.Tornando a Gerusalemme dopo circa tre anni, mi appaiono molto più evidenti di prima la diffusa convinzione israeliana che i palestinesi siano stati vinti; e il rancore dei palestinesi, celato da un’apparente rassegnazione, verso gli israeliani che determinano la loro quotidianità.
Era dal 2010 che i leader delle due comunità non s’incontravano. Nel 2014 l’allora ministra della Giustizia Tzipi Livni col compito di soprassedere anche a un’inesistente trattativa di pace, aveva incontrato Abu Mazen all’estero, sollevando le ire di Bibi Netanyahu.
Volutamente, del colloquio fra il palestinese e Gantz non sono state diffuse immagini. Naftali Bennett ha fatto finta di niente e poi ha preso le distanze dall’incontro; come il ministro degli Esteri Yair Lapid, pallidissimo sostenitore di una soluzione di pace, che fra due anni dovrebbe diventare premier al posto di Bennett: se questa strana coalizione di governo sarà ancora in piedi.
In realtà sapevano tutti dell’incontro e tutti l’hanno approvato ma dichiararlo non era popolare. Il colloquio di Ramallah è la prima conseguenza positiva della visita che la settimana prima Bennett aveva fatto a Washington. Joe Biden era troppo preso dalla ritirata afghana; sapeva che non c’erano le condizioni per imporre la ripresa del processo di pace e che se avesse forzato, avrebbe fatto cadere il fragile esecutivo israeliano, materializzando l’incubo di un ritorno di Netanyahu.
Ma contro le richieste israeliane, il presidente americano qualche pressione l’ha fatta: se non un processo diplomatico strutturato e formale, almeno un cambio di atmosfera, qualche segnale di dialogo, un supporto economico, un modo per rendere l’occupazione israeliana meno opprimente e repressiva. E’ una richiesta che da tempo avanzava l’Unione Europea, detestata dagli israeliani quasi quanto le Nazioni Unite.
Oltre ad essere insieme all’esercito, palesemente dalla parte dei coloni quando aggrediscono i contadini dei villaggi cisgiordani, spesso la polizia arresta i palestinesi che sventolano la loro bandiera: “un serio disturbo alla pace” è la spiegazione.
Gli israeliani, ha deciso Gantz – che da ex generale ha della realtà una visione più razionale dei politici – daranno 156 milioni di dollari, anticipandoli dalle tasse che raccolgono per conto dell’Autorità palestinese; distribuiranno 15mila nuovi permessi di lavoro in Israele; permetteranno ai palestinesi di costruire mille nuove abitazioni della parte di Cisgordania controllata da Israele, l’area C. Sarà anche consentiti lo scambio di merci fra Gaza e la Cisgiordania, e alla striscia verrà garantita una maggiore distribuzione di acqua ed elettricità.
L’Autorità palestinese è una delle entità politico-territoriali più sovvenzionate del mondo: in 27 anni la comunità internazionale ha investito e/o donato circa 40 miliardi di dollari; con quel denaro un terzo dei posti di lavoro a Gaza e Cisgiordania è garantito dal settore publico. Nel 2020 l’economia palestinese è precipitata dell’11,5%. Soprattutto a causa del Covid. Poi per una pessima amministrazione e una rampante corruzione. Infine – last but not least – a causa dell’occupazione. Nessuna entità amministrativa, nessuna comunità, nessuno stato può far funzionare un’economia senza il controllo delle frontiere e vivendo dentro la gabbia di un’occupazione.
Se per il momento l’obiettivo di uno stato è estremamente lontano, migliorate la qualità della vita dei palestinesi, è stato il pressante messaggio di Biden a Bennett. I critici diranno che è un beneficio ridicolo, che i palestinesi vogliono l’indipendenza nazionale. Non posso dare loro torto. Negli anni ’90, durante la trattativa di Oslo il Pil palestinese crebbe con percentuali cinesi. Le imprese locali collaboravano con quelle israeliane. Quando andavo a Ramallah la vedevo crescere, diventare una città moderna. Ma se alzavo lo sguardo, vedevo sulle colline attorno che anche gli israeliani continuavano a costruire i loro insediamenti. Alla fine il crescente benessere palestinese non ha fermato lo scoppio della seconda Intifada.
Ma quale alternativa c’è? Yair Lapid ha detto chiaramente che per i prossimi due anni, fino a che premier è Bennett, nessun processo di pace verrà ripreso: perché non è nel programma di questo governo di destra-centro-sinistra. Lapid non ha volutamente chiarito se quando toccherà a lui guidare l’esecutivo, il processo riprenderà. Naftali Bennett è molto più a favore delle colonie di Netanyahu ma il primo ha solo sette deputati in Parlamento, il secondo 31. Se solo dicesse qualcosa a favore dei palestinesi, perderebbe tutti i suoi pochi seggi.
All’amministrazione americana non resta che guadagnare tempo: nella speranza che intanto qualcosa cambi nel governo israeliano e che a Ramallah ci sia una nuova guida, al posto dell’immobile mediocrità di Abu Mazen, 85 anni. Questa è la realtà. A meno che re, emiri e rais non dichiarino la quinta guerra arabo-israeliana, in Israele nasca un Mahatma Gandhi e in Palestina un Nelson Mandela, non esistono alternative a questi tremolanti miraggi di pace.
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Allego il mio ultimo commento apparso sul Sole 24 Ore
“America, perché finisce a Kabul la retorica della nazione indispensabile”.