Quando Houston dall’umido caraibico arriva a 11 gradi sotto zero, la tempesta è senza precedenti. Ma il Texas in black-out da tre giorni è un contro senso più inaudito della stessa ondata di gelo. Sarebbe come se l’Emilia rimanesse senza prosciutto: impensabile.
I dati sono della U.S. Energy Information Administration: nel 2019 le 30 raffinerie del Texas hanno prodotto il 41% del greggio e il 25 del gas naturale degli Stati Uniti. Come è noto gli Usa sono il primo produttore mondiale di petrolio e il Texas è il primo fra gli stati dell’Unione: 5,8 milioni di barili al giorno, solo Russia e Arabia Saudita ne producono di più. Il Texas è primo anche per elettricità prodotta dal vento: dal 2014 questo settore produce più energia delle due centrali nucleari dello stato.
Cifre tanto importanti quanto inutili se da martedì pomeriggio la capacità di generare elettricità è crollata di oltre il 50%. D’improvviso sono venuti meno 45 gigawatt, quanto serve per illuminare e riscaldare la Svezia. Come in un paese in via di sviluppo, milioni di persone – le meno abbienti, le meno protette dal sistema sanitario e ora anche da questo – sono rimaste al freddo e al buio. Niente servizi pubblici, negozi vuoti, acqua ghiacciata nei tubi dei rubinetti.
Alla fine degli anni Ottanta, quando vivevo in Unione Sovietica, feci un reportage in Yakutia, nella Siberia orientale, che molti credevano esistesse solo nel Risico. Arrivai fino a Ojmjakon, chiamato “il polo del freddo” perché era il luogo abitato più freddo del mondo: una stele nell’unica piazza del villaggio ricordava la minima storica di 71,2 gradi. Quando vi andai io faceva solo meno 52. Gli Yakuti avevano tutto ma non possedevano niente: il petrolio, l’oro e tutti i metalli preziosi del territorio finivano a Mosca. I due milioni di capi di cavallo Yakut che allevavano venivano esportati in Giappone e Corea, per la loro carne. Provai a chiedere all’anziano amministratore della stolovaya chiamata “Il Piccolo Sole”, nella quale alloggiavo, che sapore avesse la carne Yakut. “Non so, non l’ho mai assaggiata”, rispose.
La lettura sui giornali del disastro texano, del black-out infrastrutturale, tecnologico e sociale di uno degli stati più ricchi d’America, mi ha fatto ricordare la Yakutia che avevo visitato negli anni della Perestrojka. I paragoni sono improponibili, ovvio. Ma il sapore di un fallimento strutturale è molto simile. Laggiù quello che stava finendo era il modello collettivista del comunismo; l’improvviso gelo texano svela i limiti dell’individualismo ideologico. Ognuno per se a 15 sotto zero come a Dallas. “Non hanno nemmeno di che spalare la neve”, diceva sulla Cbs Trevor Noah, il conduttore di “Daily Show”. “Il meglio che possono fare è impugnare il loro fucile semi-automatico e sparare a ogni fiocco prima che tocchi terra: tornatevene a casa vostra in Canada!”.
Il governatore repubblicano Greg Abbott, i gestori della rete elettrica, l’industria petrolifera: ognuno ha scaricato le responsabilità sugli altri. Abbott ha anche avuto il coraggio di accusare di tutto questo il Green New Deal democratico che nemmeno esiste ancora, posto che mai esisterà. Ma per i repubblicani legati alle armi e agli idrocarburi, neanche gli effetti del mutamento climatico sotto i loro occhi in Texas, bastano per convincersi che energie alternative non è sinonimo di comunismo ma di futuro. Tornando al parallelo con la Yakutia, Abbott mi ha ricordato Egor Ligaciov, il sostenitore dell’ortodossia sovietica, grande avversario delle riforme di Gorbaciov.
“Se paragoniamo il mondo di oggi con quello di 18 mesi fa, la grande differenza è che allora solo il 25% del mondo aveva un orizzonte di fonti rinnovabili”, dice l’ex capo del Wto Pascal Lamy, in un’intervista al Financial Times.”Oggi il 75% dell’economia mondiale vede le fonti rinnovabili all’orizzonte”. Secondo Fati Birol, il capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, già nel 2025 le rinnovabili produrranno più energia del carbone.
E’ giusta convenzione sostenere che la pandemia non cambierà la geopolitica mondiale: si limiterà (e non è poco) ad accelerare i conflitti e le dinamiche che già esistevano. Ma la transizione energetica, accelerata dalla pandemia, stabilirà più di ogni altro fattore chi avrà nelle sue mai le chiavi del futuro. Una prima rivoluzione strutturale è che sole, vento, biomasse, l’energia idroelettrica, geotermica e degli oceani sono quasi dappertutto. Greggio e gas no. Basta minare o sminare lo stretto di Ormuz per determinare il destino di una regione petrolifera fondamentale come il Medio Oriente.
Nei consessi internazionali Russia e Arabia Saudita sono ormai famosi per cercare di cambiare discorso ogni volta che si parla di transizione energetica. A Mosca gli oligarchi, gran parte dei quali diventati tali spolpando le risorse di idrocarburi russe, vivono le loro ultime ricche notti di Pompei. Con grave ritardo (mai quanto gli iraniani), i sauditi stanno disperatamente riconvertendo la loro economia. Ma sono molto più indietro degli altri paesi del Golfo, i cui fondi sovrani garantiranno una solida ricchezza post-petrolifera.
Naturalmente occorreranno decenni prima che l’energia e l’economia mondiale si liberino del tutto degli idrocarburi. Ma la transizione si accelererà anno dopo anno. Inutile dire che nella rivoluzione energetica l’avanguardia è la Cina: la cosa è pericolosa. Scoprire invece che il Texas è l’avanguardia della retroguardia infrastrutturale e ideologica americana, è triste. Chi aiuterà Joe Biden a evitare la decadenza?