Per la prima volta un capo di governo israeliano è alla sbarra in un tribunale, accusato di reati che potrebbero costargli il posto e la prigione. In realtà il primo premier a essersi trovato in quelle condizioni non è Bibi Netanyahu ma Ehud Olmert, nel 2008. Fra i due, tuttavia, c’è una differenza non solo sostanziale ma anche morale. Accusato di illeciti simili, legati alla corruzione, Olmert diede le dimissioni prima di entrare in tribunale: annunciò di volersi presentare ai giudici da semplice cittadino.
Bibi ha cercato in tutti i modi legali e no di impedire e poi ritardare l’inchiesta e il processo. Olmert no. Bibi ha denunciato complotti, accusato la magistratura e la sinistra di tramare contro la politica. Olmert no. Ha denunciato un colpo di stato strisciante e ha costruito un pletorico e strano governo di coalizione per poter presentarsi ai giudici dall’alto della massima carica politica. Omert non ha fatto neanche questo, in segno di rispetto per la democrazia israeliana.
Un premier di questo spessore che governa ininterrottamente da più di 10 anni senza aver mai vinto un’elezione con percentuali solide (a volte perdendo contro l’oppositore diretto, restando in sella solo per somma di coalizione), potrebbe porre fine al diritto palestinese di avere uno stato. E, conseguentemente, di negare a Israele frontiere definitive e riconosciute dal mondo, compreso quello arabo.
Un uomo che rischia di finire in galera potrebbe scatenare una nuova guerra mediorientale, una terza Intifada, un ritorno in forze del terrorismo islamico. “Se a luglio Israele davvero annetterà la West Bank, questo porterà a un grande conflitto con la Giordania”, dice Abdullah, monarca coraggioso e sfortunato del regno Hashemita.
Olmert e Tzipi Livni, la sua ministra degli Esteri, avevano un pedigree nazionalista e di destra anche più autorevole di quello della famiglia Netanyahu. Ma avevano rinunciato all’ambizione di una Grande Israele per offrire ai palestinesi il miglior compromesso allora possibile: “concessioni dolorose” per Israele, ammise Olmert. Con una decisione suicida (per il suo popolo) Abu Mazen rifiutò. E’ il grave limite politico dei palestinesi: scambiare per debolezza le rare volte in cui gli israeliani propongono rilevanti compromessi, rifiutandoli e pensando di avere di più.
Ciò che oggi rimane ai palestinesi è un vergognoso piano di pace preparato dalla famiglia Trump, che permette un’annessione parziale di altri territori palestinesi. Parziale ma definitiva: se realizzata, renderà fisicamente impossibile uno stato palestinese territorialmente continuo, sostituito da un bantustan alla sudafricana dei tempi dell’apartheid. Piccole isole di autonomia circondate dai carcerieri, dentro le quali i carcerati potranno fingere di autogovernarsi.
E’ ciò che accadrà a partire dal primo luglio? Io credo di no. Non prendete tuttavia per buona la mia previsione: ne dubito anche io. Ma se dovessimo ripartire la quantità di nazionalismo e di opportunismo nel curriculum politico di Netanyahu, direi 30 a 70. Da premier Bibi non ha mai scatenato guerre né preso decisioni importanti; ha sempre teso almeno un orecchio alle richieste di moderazione della comunità internazionale; e la sua retorica verbale – quella si ossessiva – si è dedicata all’annessione, al rifiuto di uno stato palestinese, alla fine della trattativa solo in campagna elettorale. Passato il voto, Netanyahu non dedicava un secondo del suo tempo a riprendere il negoziato con i palestinesi, ma nemmeno prendeva decisioni radicali opposte: irritando il movimento dei coloni e le destre più a destra del Likud, alle quali aveva promesso la Grande Israele in cambio del voto.
E’ poi opinabile che a dispetto del suo piano di pace, a Donald Trump serva l’annessione. Il presidente reagisce a tutto ciò che accade negli Stati Uniti e nel mondo, in funzione elettorale: questo o quello mi porterà voti a novembre? Forse l’annessione no. La gran parte degli ebrei americani vota democratico, ama Israele ma condivide sempre meno la sua crescente tribalizzazione religiosa.
Infine i militari. Per forma mentis, spirito professionale o desiderio di carriera, solitamente i generali prediligono l’uso della forza al compromesso. In Israele sono – sempre generalizzando – la parte moderata e più equilibrata del potere decisionale: erano contro il bombardamento dell’Iran, a favore degli accordi sul nucleare mentre Netanyahu li osteggiava; hanno sempre sostenuto l’opzione del negoziato con i palestinesi; non hanno mai amato le annessioni territoriali né il movimento dei coloni, ricevendo in cambio rancore e ostilità.
Benny Ganz e Gabi Ashkenazi, i numeri uno e due di Kahol Lavan, l’opposizione ora nel nuovo governo di unità nazionale, sono ex capi di stato maggiore delle forze armate: il primo ora è ministro della Difesa e il secondo degli Esteri. Il piano di pace di Trump, diceva qualche giorno fa Ashkenazi, “sarà avanzato con responsabilità, mantenendo tutti gli accordi di pace e gli interessi strategici dello stato d’Israele”. Inoltre, “attribuisco grande importanza al rafforzamento dei nostri legami strategici con Egitto e Giordania, i paesi con i quali siamo già in pace”. Sono gli stessi argomenti avanzati da Ganz nella sua cerimonia d’insediamento a Tel Aviv, al ministero della Difesa.
Forse erano solo dichiarazioni senza peso. Ma se le parole pesano, non sembrano di grande sostegno all’annessione che pure è parte del programma di governo. La speranza c’è. Ma probabilmente dovrei smettere di mostrare una qualsiasi forma di ottimismo quando scrivo d’israeliani e palestinesi.
http://www.ispionline.it/it/slownews-ispi/