Steve Bannon, l’aedo del sovranismo americano, invitato a Roma da Comin & Partners per un confronto con Carlo Calenda, moderato da Lucia Annunziata, era evidentemente felice. Sosteneva che il rapporto di Robert Mueller che scagiona Donald Trump dall’accusa di collusione con i russi, apre la strada a un secondo mandato presidenziale.
L’idea di rivedere Trump alla guida degli Stati Uniti fino al 2024, credo terrorizzi qualsiasi persona normale che non detesta l’America a prescindere. Ma non sarà così facile, nonostante il consigliere speciale Mueller lo abbia obiettivamente rimesso in pista. A meno che non facciano uso della violenza, i populisti riescono a farcela una volta sola. Poi la gente capisce. Adesso gli americani sanno chi è Donald Trump; la maggioranza ha capito che il candidato vestito da Robin Hood che prometteva di “prosciugare la palude di Washington” da politicanti, lobbies e ricconi, era in realtà lo Sceriffo di Nottingham.
Le elezioni di midterm, ad autunno, erano state un segnale abbastanza chiaro per un cambio l’anno prossimo, quando si voterà. A meno che non ci pensino i democratici a riaprire la strada a Donald Trump: solo loro possono trasformare l’incubo in realtà possibile.
Avere 15 candidati ufficiali, tre possibili e altri sette che ci stanno pensando, (conto aggiornato al 14 marzo) può significare due cose: la certezza di una facile vittoria che spinge una pletora di concorrenti a sfruttare l’occasione, o una grande incertezza sul profilo del democratico vincente.
Dopo un razzista e sessista come Trump che ha mobilitato tulle le paure dell’America bianca e conservatrice, è meglio un candidato uomo o donna; di razza bianca o nera; un liberal moderato o radicale; con l’esperienza della maturità o la forza della giovinezza?
Almeno una delle questioni che dividevano i democratici, è stata eliminata: spingere o no per l’impeachment. I più giovani e i più liberal volevano la lotta dura; quelli di età ed esperienza più consistenti, erano dubbiosi. Nella storia degli Stati Uniti solo tre presidenti sono stati messi sotto inchiesta: Bill Clinton, Richard Nixon e Andrew Johnson. A parte Nixon, travolto da una montagna di prove, per Clinton e Johnson l’impeachment non è passato. Durante il dibattito e le polemiche prima che venissero scagionati, la popolarità dei due presidenti crebbe enormemente. Johnson che nel 1865 successe a Lincoln, oggi è ricordato dagli storici come uno dei peggiori presidenti della storia. Ma allora si salvò: un memento per i democratici che sognavano la ghgliottina per Trump e che parlavano solo di questo, dei russi e di Mueller.
A dispetto delle reazioni stizzite dei democratici (bisogna ricordare che il rapporto non solleva del tutto Trump dall’inchiesta), Mueller ha fatto un grade favore al partito. Finalmente i democratici dovranno tornare a parlare dei temi che interessano davvero gli americani. “Spero ci dia la motivazione per concentrarci sulle questioni che davvero hanno impatto sulla vita di tutti i giorni”, ha commentato Pete Buttigieg. “Una delle cause della nostra sconfitta del 2016 è aver parlato troppo di lui, lasciando la gente a casa a chiedersi: OK, ma nessuno sta parlando di me”. Buttigieg, sindaco di South Bend, Indiana, è l’ultimo arrivato nella grande corsa democratica: progressista, ottimista e religioso, sembra il candidato presidente di un film di Frank Capra.
Appunto, i candidati. Circa una settimana fa la media dei cinque principali sondaggi indicava questo risultato: Joe Biden 29,4%; Bernie Sanders 23,4; Kamala Harris 10,4; Beto O’Rourke 8; Elizabeth Warren 6,6. Per gli altri le percentuali sono irrilevanti ma è presto per trarre conclusioni. Fra i cinque possibili non manca nessuno: il candidato moderato e il socialdemocratico (per molti in America è come dire comunista), la donna e l’uomo, il texano, il wasp (White-Anglo-Saxon-Protestant) e la rainbow nation: Warren rivendica antiche origini Cherokee; la madre di Harris è del Tamil Nadu, il padre giamaicano.
Il primo problema evidenziato dai sondaggi è che Biden, ex vicepresidente di Barak Obama, ha 77 anni; Sanders uno di più. Il secondo non ha comunque possibilità di vittoria, il primo si. Ma è l’ipotesi di diventare presidente a 78 anni passati che ancora lo trattiene dal candidarsi ufficialmente. Quando Biden fu eletto per la prima volta in Senato nel 1972, uno dei candidati di oggi, Beto O’Rourke, era nato da poche settimane.
Tante diversità, molte opportunità e grande incertezza sono il segno di un partito vivo, radicato nella società. Lo sono ora, a poco più di un anno dalla convention del 13 luglio 2020, a Milwaukee, che nominerà il candidato del partito alla presidenza; e sono positive a 18 mesi dal primo martedì di novembre, quando gli americani voteranno il presidente. Ma se a tante stimolanti diversità non troveranno una sintesi credibile, se il cuore del dibattito interno e il messaggio alla nazione continuerà ad essere solo “quanto è cattivo Trump”, lo Sceriffo di Nottingham resterà al suo posto. E nessuno potrà prevedere che America lascerà nel 2024.
P.S. – Per ulteriori chiarimenti, i democratici americani potrebbero farsi raccontare dal centro-sinistra italiano a cosa portò la sua monotematica demonizzazione di Silvio Berlusconi.
http://www.ispionline.it/it/slownews-ispi/
Allego la recensione su “The Jungle Grows Back”, l’ultimo saggio di Robert Kagan, uscito sul Domenicale del Sole 24 Ore