Giovane o attempato? Uomo o donna? Bianco, nero o latino? E perché non asiatico? Con esagerato anticipo, negli Stati Uniti è iniziata la corsa al prossimo presidente democratico. Il Washington Post ne ha contati 39 di candidati possibili: 11 senatori, 6 deputati, 4 governatori, 7 sindaci, 6 imprenditori e 5 “altri”, al momento senza un lavoro preciso (fra questi Joe Biden, John Kerry e Hillary Clinton).
Ma la corsa all’oro due anni prima delle presidenziali, non è solo democratica. Non c’è nessuna legge che neghi al partito del presidente in carica di presentare altri candidati, anche se quest’ultimo cerca la rielezione per un secondo mandato. Ma è raro che accada: non farlo è una consuetudine. Tuttavia con Donald Trump le consuetudini non esistono più. Ad aprire le danze era stata la senatrice repubblicana del Maine, Susan Collins: ”non è detto che il partito non presenti altri candidati”.
Il primo gennaio l’articolo che Mitt Romney ha scritto sul Washington Post, ha tutta l’aria di essere un’auto-candidatura. https://www.washingtonpost.com/opinions/mitt-romney-the-president-shapes-the-public-character-of-the-nation-trumps-character-falls-short/2019/01/01/37a3c8c2-0d1a-11e9-8938-5898adc28fa2_story.html?utm_term=.156ac8b320a7&wpisrc=nl_opinions&wpmm=1 Ex governatore del Massachusetts, candidato repubblicano sconfitto da Barack Obama nel 2012, ora senatore dello Utah, Romney è un conservatore moderato, un internazionalista, un negoziatore, un mormone timorato di Dio. L’opposto di tutto quello che è Trump.
Dei 39 candidati democratici indicati dal Post, solo tre per ora hanno formalmente annunciato di correre. Gli altri sono stati divisi in “si muove come un candidato”, “lascia aperta l’opzione”, “è in esplorazione”, “ha detto no ma le voci continuano”. Oltre che prematuro, il dibattito è un po’ esagerato: interessa soprattutto la stampa e il mondo politico che gravitano attorno a Washington.
Ma l’interesse cresce. Nella storia delle primarie americane, le prossime (almeno le democratiche) avranno per la prima volta non meno di due candidati neri, di due candidate donne e di due della sinistra del partito. Prevedendo una storica ressa alle primarie, il Democratic National Committee ha deciso di organizzare 12 dibattiti fra i candidati.
Il pericolo del partito democratico è di avere troppa scelta e alla fine di non saper scegliere la linea politica più efficace per sconfiggere Donald Trump: spingere per l’impeachment ora che la Camera è controllata da loro o lasciar macerare il presidente nelle sue contraddizioni? Avanzare una proposta politica moderata o più di sinistra, pragmatica o populista? Più di un economista consiglia i democratici di essere populisti: naturalmente in un modo diverso da Trump. Come in Europa, anche negli Stati Uniti cresce la richiesta di tassare i ricchi, alzare il salario minimo, avere per i figli un’educazione a portata di portafogli. Il mese scorso, quando un giudice federale del Texas ha stabilito che l’Obamacare era incostituzionale, anche i repubblicani si sono spaventati: sanno quanto quella riforma sia popolare. Negli ultimi 10/15 anni quasi tutti gli stati, democratici e repubblicani, hanno in vari modi aumentato a furor di popolo i salari minimi.
Dopo l’inaspettata vittoria di Trump, si diceva che i democratici avrebbero dovuto presentare un candidato di razza bianca, di sesso maschile e conservatore. Forse non è più necessario. E questo, insieme alla ressa di candidati e alla possibilità che anche i repubblicani ne presentino, dimostra il sempre più evidente fallimento di Trump. Nei prossimi due anni- salvo impeachment – il presidente governerà “a naso”, con una squadra B d’inesperti e cortigiani, dopo aver cacciato tutte le prime scelte di valore. Sarà sempre più indispettito dalle indagini su tutto ciò che ha fatto per diventare presidente e potrebbe commettere errori pericolosi per l’America e il mondo.
Dopo 710 giorni alla Casa Bianca, “The Fact Checker”, la rubrica speciale del Post, ha contato 7.645 bugie di Trump. L’ultima, legata al muro che vuole costruire alla frontiera messicana, è che anche la casa di Barack Obama a Washington è protetta da un muro alto tre metri. Le foto ne mostrano uno che non arriva a un metro e un’ampia scala fino alla porta d’ingresso. Non vorrei farmi prendere da un cieco entusiasmo ma forse l’America si sta davvero stancando di quell’uomo.
http://www.ispionline.it/it/slownews-ispi/
Allego un commento sulla guerra nello Yemen uscito nei giorni scorsi sulle pagine del Sole 24 Ore.