Una volta ci chiamavano “la Bulgaria della Nato”. Intendevano dire che fra tutti i membri dell’Alleanza Atlantica, l’Italia era la più prona agli ordini degli Stati Uniti, come nel Patto di Varsavia lo erano i bulgari con l’Unione Sovietica.
Era relativamente vero. L’Italia di allora si prendeva anche la libertà di aprire con la fabbrica di Togliattigrad una sua Ostpolitik economica e politica, prima che lo facesse Willy Brandt; o di co-produrre film come “Italiani brava gente”, offrendo alla propaganda sovietica la possibilità di affermare che, diversamente dai tedeschi, noi eravamo “nemici buoni”. Se nel 1941 avevamo partecipato all’operazione Barbarossa, lo avevamo fatto per errore.
Come ha dimostrato anche la visita di Giuseppe Conte, l’America esercita sempre un grande fascino sui presidenti del Consiglio italiani. E’ ancora vivo il ricordo della gioia di Silvio Berlusconi col giubbotto da pilota donatogli da George Bush nel suo ranch in Texas. O lo sguardo felice di Matteo Renzi che nella Casa Bianca di Barack Obama aveva trovato la sua Disneyland politica.
“Siamo due outsiders” diceva Donald Trump. “Siamo estranei all’establishment”, rilanciava Conte (cito Giuseppe Sarcina sul Corriere). A guardare i curriculum dei due statisti (quello che di Conte è certificabile), le dichiarazioni di entrambi sono fake news. Non mi sembra che l’americano e l’italiano si possano definire alternativi al sistema nel quale il primo ha fatto soldi a palate e il secondo carriera fra curie e università prestigiose.
Dal vertice di Washington è emerso che la preoccupazione italiana sono giustamente Libia e Mediterraneo. Conte cerca un partner forte per contenere l’esuberanza piuttosto arrogante della Francia. Ha ragione il premier italiano nel considerare pericolosamente premature le elezioni libiche che Macron vuole in autunno. Ho tuttavia la sensazione che l’interesse di Trump per la Libia sia pari a quello di mantenere truppe americane in Siria: poco al di sopra dello zero. Al presidente importano le questioni energetiche, dove scorrono i soldi veri: la creazione del gasdotto in Puglia e il shale gas americano che l’Italia dovrebbe comprare nonostante costi più degli altri sul mercato internazionale.
Ma nel vertice americano è accaduto qualcosa di più importante. Trump ha promosso l’Italia sovranista e anti-europeista ad alleato privilegiato nel vecchio continente: l’apripista in Europa della visione distruttiva del presidente Usa. O forse creativa di qualcosa che puzza di tragico passato. Più che abbozzare, Conte ha aderito con entusiasmo, forse ignorando o forse avendo molto chiaro di iniziare una svolta a mio avviso pericolosa nella politica estera italiana. “Il presidente è un grande difensore degli interessi americani”, ha commentato Conte. Già, ma quali sono oggi gli interessi dell’America di Trump? L’uso dell’insulto come regola sostitutiva della diplomazia? Le guerre commerciali? Il sovranismo politico ed economico? La distruzione dell’attuale sistema di alleanze e di sicurezza collettiva?
Potremmo aggiungere la remissività verso la Russia di Putin. Ma è superfluo: oggi chi ottiene l’amicizia di Trump, condividendone spirito e programmi, riceve come bonus l’appeasement con la Russia. Una specie di paghi uno e prendi due. Se Trump e Conte hanno deciso di non toccare le sanzioni alla Russia non è perché pensano che quelle sanzioni, per quanto dolorose, abbiano una concretezza politica e morale. A entrambi, per motivi domestici, fa comodo soprassedere.
Quello che dall’Italia della “svolta” vuole Donald Trump, insieme a Putin, è la partecipazione alla distruzione dell’Europa unita come l’abbiamo avuta fino ad ora. La data dell’offensiva c’è già: le elezioni di maggio per il parlamento europeo. L’internazionale sovranista è già mobilitata. Steve Bannon ha aperto una base a Bruxelles, i trolls russi sono in servizio a diffondere bugie, sfiducia e insulti, tutti i sovranisti d’Europa – Salvini compreso -guardano a quell’occasione come al giorno della vittoria.
“Il prossimo maggio non potremo solo dare un grande addio alla democrazia liberale ma anche all’intera élite del ‘68”. Mentre Trump e Conte si complimentavano l’uno con l’altro a Washington, Viktor Orban arringava le minoranze ungheresi dell’Est d’Europa, convocate in un campo estivo in Romania. (Scusate, forse il paragone è eccessivo, ma a me vengono in mente Hitler e le minoranze tedesche dei Sudeti e di Konigsberg). Il Pensiero del primo ministro ungherese ultra-nazionalista e ultra-religioso è che “il cristianesimo democratico non è liberale. La liberal-democrazia è liberale mentre il Cristianesimo democratico è – per definizione – non liberale: se vi piace, illiberale”. Chiaro, no? Dopo Trump e Putin, ecco un altro caro compagno di strada della Nuova Italia.
http://www.ispionline.it/it/slownews-ispi/