Il Washington Post l’ha chiamata ”Trump derangement syndrome”. E’ quella forma di squilibrio mentale a causa della quale la persona che detestiamo polarizza così tanto la nostra ostilità da radicalizzare le opinioni. Per esempio: Donald Trump è talmente prono a Vladimir Putin che i democratici più liberal, sempre favorevoli al dialogo, oggi sono anti-russi quanto i repubblicani con tendenze da Dottor Stranamore come John McCain.
O chi è sempre stato per una soluzione diplomatica del nucleare Nord-coreano: oggi è così ostile alle bugie di Trump sul vertice di Singapore da invocare sanzioni e mobilitazione contro Kim Jong-un. La “derangement syndrome” l’aveva usata per primo Charles Krauthammer, grande editorialista del Post e psichiatra, nei confronti di George Bush. Il presidente dell’invasione dell’Iraq mostrava una tale ottusità da polarizzare il giudizio politico degli oppositori. Non immaginavamo che un giorno avremmo incontrato sulla nostra strada Donald Trump, capace di farci ricordare George W. come un presidente in fondo accettabile.
Ma forse è ancora più grave la sindrome della quale è affetto Donald Trump. No, non le bugie: sempre il Post ha calcolato che nei primi 500 giorni di presidenza – quindi prima delle spettacolari sceneggiate a Bruxelles, Londra e Helsinki – Trump ha detto 3.251 falsità scientificamente provate.
La sindrome più pericolosa coltivata dal presidente, soprattutto per quel che resta della stabilità del Medio Oriente, è quella che gli permettere di andare d’accordo con i peggiori autocrati della Terra: Kim, Putin, al Sisi, Mohammed bin Salman, Rodrigo Duterte, Recep Erdogan, forse perfino Bashar Assad se è vero che a Helsinki Trump ha concesso a Putin la sua sopravvivenza al potere. Baci e abbracci con tutti ma non con gli iraniani verso i quali non fa’ alcuna distinzione fra Khamenei, i pasdaran e i più moderati come Rouhani.
Kim è andato al vertice di Helsinki, ha promesso a Trump che smobiliterà il nucleare (così dice Trump), è tornato a casa e ha continuato a sviluppare il suo programma: ma per il presidente è un bravo ragazzo del quale fidarsi. Gli iraniani hanno fatto l’accordo sul loro nucleare, hanno continuato a rispettarlo: lo certificano europei, russi, cinesi, Onu, i generali del Pentagono e quelli israeliani più il Mossad. Eppure Trump e il suo segretario di Stato Mike Pompeo, sostenuti da Bibi Netanyahu e i sauditi, puntano a un cambio di regime a Teheran.
E’ noto come finiscano le cose quando gli americani cambiano i regimi dal Cile al Vietnam, passando per il Medio Oriente. In questo caso andrebbe peggio che altrove. Come conseguenza potrebbe immediatamente scoppiare una guerra fra Israele e Iran più Hezbollah, Siria, Libano, Hamas, Arabia Saudita, con la Turchia che non starebbe a guardare: la Grande Guerra mediorientale.
Qualche giorno fa gli israeliani hanno abbattuto un aereo siriano che aveva sconfinato e i siriani hanno lanciato due missili caduti nel lago di Tiberiade; a Gaza Hamas continua a rompere le tregue con Israele, negoziate da Onu ed Egitto: sembra che Hamas palestinese ed Hezbollah libanese si stiano riavvicinando. L’esercito siriano è ormai tornato alla frontiera con Israele: sta sbaragliando le ultime resistenze delle opposizioni e degli islamisti. Per gli israeliani non sarebbe un problema: la famiglia degli Assad è sempre stata un “nemico affidabile”. L’accordo di disimpegno sul Golan, negoziato dall’Onu nel 1974, ha sempre funzionato. Ora non più, sembra.
Il problema oggi è chi arriva alla frontiera del Golan con i siriani: sicuramente Hezbollah, probabilmente anche gli iraniani. I russi promettono di smontare il pericolo, convincendo alla moderazione gli alleati. Ma se anche Putin convincesse gli iraniani a ritirare i loro missili a 62 miglia dalla frontiera israeliana, non sarebbe sufficiente. Quanto Damasco e Teheran che incominciano a sentire il profumo della vittoria in Siria, ascoltano ancora i russi?
A Mosca stanno cercando di fare la riforma delle pensioni. Oltre a protestare contro il prolungamento dell’età lavorativa, la gente ha incominciato a chiedersi perché si debbano sprecare così tante risorse in Siria e Ucraina. Rileggendo le ultime presidenziali, il 40% dell’elettorato si è astenuto, il 20 ha votato candidati minori. Poco meno del 40% ha scelto Putin. Contando i possibili brogli e il divieto ad Alexei Navalny di partecipare, l’elezione non è stata proprio un plebiscito.
Quanto la Russia è ancora un alleato autorevole per iraniani e siriani? Per autocrati e leader velleitari (Trump è fra questi ultimi) la guerra è spesso una via d’uscita dalle crisi. Anche l’Iran è in grave crisi: economica, sociale, politica e geopolitica. Karim Sadjapour dell’istituto Carnegie sostiene che “l’Iran è regionalmente ascendente ma internamente discendente”. Messo alle strette dalle nuove sanzioni americane, il regime potrebbe reagire provocando un grande conflitto regionale. Era già successo nel 1979: gli ayatollah erano in crisi, Saddam Hussein invase l’Iran, il paese si ricompattò e il regime si salvò. La Storia si ripete anche se a volte i finali cambiano.
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Allego il reportage dall’India uscito recentemente sul Sole 24 Ore