E’ vero che oggi la costante delle relazioni internazionali è l’incostanza quasi quotidiana delle decisioni di Donald Trump. Ma c’è troppa discontinuità fra la sua determinazione di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano e il suo forse prematuro entusiasmo per la Corea del Nord. Fra la sua dichiarazione di guerra commerciale alla Cina e la decisione di regalarle l’Asia più ricca, ritirandosi dalle organizzazioni multilaterali economiche che la stessa America aveva promosso in quella regione.
Limitarsi a dire che per l’Iran come per la Corea del Nord sempre di bomba atomica si parla, è riduttivo. C’è bomba e bomba: dipende dal contesto e dagli attori sulla scena. In Medio Oriente le guerre sono già in corso e i principali alleati degli Stati Uniti – Israele e Arabia Saudita – sono i sobillatori: più di un accordo per la sicurezza regionale con l’Iran, entrambi aspirano a un cambio di regime a Teheran.
In Estremo Oriente gli alleati degli americani sono invece i conciliatori. Moon Jae-in, il presidente Sud-coreano si era candidato e aveva vinto le elezioni con un programma di pacificazione con il Nord. I giapponesi sono meno entusiasti, vogliono capire cosa davvero offrirà e chiederà Kim, ma sono più che favorevoli al dialogo.
Nel suo sconfinato ego, Donald Trump è convinto di essere l’artefice del disgelo, avendo alzato nei mesi precedenti il livello della minaccia militare verso il Nord. In parte ha ragione ma senza la Cina il pessimismo avrebbe continuato a prevalere. Quando a Pechino hanno deciso che una guerra nucleare sarebbe stata peggio che lasciare l’America a crogiolarsi in una crisi, hanno finalmente fatto le pressioni necessarie su Pyongyang. Anche a Vladimir Putin piace che Trump resti incagliato nelle sabbie mediorientali ma non al punto da desiderare una guerra spaventosa fra Israele e Iran. La differenza è che i russi non hanno lo stesso potere di condizionare e controllare Teheran dei cinesi a Pyongyang.
Forse i cinesi hanno anche intuito che per avere un accordo e sbandierare un primo grande successo diplomatico, Trump potrebbe accettare di ritirare le truppe americane dalla penisola coreana. Kim Jong-un ne sarebbe felice, Xi Jimping ne sarebbe entusiasta. Coreani del Sud e giapponesi molto meno. In Medio Oriente Trump non ha nulla da offrire salvo continuare a minacciare e negare all’Iran lo stesso dialogo che offre alla Corea del Nord.
Il problema dell’incostanza di Donald Trump rimane ed è diventato forse la principale causa dell’instabilità internazionale. Quale è l’America che ha in mente? Il gigante isolazionista chiuso dentro la fortezza garantita da due oceani o la super-potenza che vuole affermare la sua volontà e i suoi interessi globali? Il suo modo d’agire in Estremo Oriente è coerente con la prima America: chiudere in pace un contenzioso e lasciare agli attori locali la gestione della regione. Steve Bannon ne sarà deliziato.
Il comportamento in Medio Oriente, traslocare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e mandare all’aria l’accordo sul nucleare, va nella direzione opposta. Il nuovo segretario di Stato Mike Pompeo e l’appena arrivato Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton sostengono l’idea di un’America presente, militarmente attiva e imperiale. I due sono più vicini alla squadra di neo-con di George Bush che pianificò l’invasione dell’Iraq del 2003. Bolton ne faceva parte. L’ambasciata a Gerusalemme e la cisi con l’Iran, scelte generatrici d’instabilità, presuppongono un incremento dell’impegno americano. Chi sopravvivrà, vedrà: è una banalità ma non ho niente di meglio da offrire.
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Allego due commenti sull’accordo nucleare iraniano usciti sul quotidiano e sul sito del Sole 24 Ore.