Come per tutti i presidenti degli Stati Uniti morti mentre erano in carica, a Franklin Delano Roosevelt fu organizzato un grande funerale di stato a Washington. Al passaggio del corteo funebre lungo Pennsylvania Avenue, un uomo in prima fila tra il pubblico crollò in ginocchio, singhiozzando. Cercando di rincuorarlo, un poliziotto gli chiese se conosceva F.D.R. “No”, rispose lo sconosciuto, “ma lui conosceva me”. Esiste un complimento migliore per uno statista?
Roosevelt era stato eletto presidente nel 1932, nella fase più profonda della Depressione. Aveva riaperto le banche messe sotto controllo dallo Stato come non era mai accaduto prima né si sarebbe ripetuto poi; aveva creato milioni di posti di lavoro, imposto un articolato sistema sociale pubblico, dato forza ai sindacati inimicandosi il grande potere economico: ma con gli strumenti del socialismo aveva salvato il capitalismo americano.
Unico presidente nella storia, fu eletto per quattro volte consecutivamente. Morì il 12 aprile 1945, poche settimane prima della grande vittoria contro il nazi-fascismo. F.D.R. non aveva solo rimesso in moto l’America: insieme a Winston Churchill aveva salvato il mondo. Per questo quel cittadino era convinto di avere una relazione personale con Roosevelt: era convinto che per 13 anni l’uomo più potente del mondo avesse lavorato per lui.
Fra poco, il 6 di giugno, saranno 50 anni da quando Robert Kennedy fu ucciso a Los Angeles: solo due mesi dopo Martin Luther King e meno di cinque anni dopo il fratello John. Netflix ha appena prodotto un commovente documentario in quattro puntate: “Bobby Kennedy for President”. L’Ambassador Hotel, nelle cui cucine fu assassinato, non esiste più. Su quel terreno negli anni Ottanta Donald Trump voleva costruire il grattacielo più alto del mondo. Ci fu un scontro legale vinto dalle autorità scolastiche californiane e ora al posto dell’albergo c’è la R. F. Kennedy Community School.
Come scrive Chris Matthews nell’ultima biografia del candidato democratico alle presidenziali del 1968 (“Bobby Kennedy – A Raging Spirit”, Simon & Schuster), “Non c’è stata un’era Robert Kennedy”. Ne abbiamo avuta una di F.D.R., una brevissima di Jack Kennedy. Ma non di Bobby che non ha avuto il tempo di arrivare alla Casa Bianca. Forse non l’avrebbe mai conquistata: quando fu assassinato era solo sulla buona strada per vincere le primarie democratiche. Poi, come il fratello nel 1960, avrebbe dovuto scontrarsi con Richard Nixon, un avversario formidabile. Ma questo rende ancora più straordinario il ricordo di Bobby. Certo: il mito dei Kennedy è stato alimentato dal loro sacrificio. Ma perché furono assassinati? In un ennesimo numero dedicato a Trump, a ottobre “Foreign Affairs” aveva pubblicato un breve saggio per sostenere che in America non esiste il “deep state”, l’apparato del potere, lo stato profondo che impedisce alle cose di cambiare troppo repentinamente. Forse in Egitto, Pakistan e Turchia, si sosteneva. “Ma ha piccola rilevanza negli Stati Uniti, dove le strutture di potere governativo sono quasi interamente trasparenti, egalitarie e portate alle regole”.
A si? E Edgar Hoover? E John, Bobby, il dottor King? Nel caos del 1968 un famoso giornalista aveva scritto che “l’America, più di una civilizzazione assomiglia a un poligono di tiro”. A volte perde, altre concede. Ma nei momenti difficili che ritiene siano lo sparti-acque fra il loro potere e l’ignoto (l’equità sociale, la protesta dei neri e dei latinos, un indirizzo troppo liberal, la minaccia all’apparato militare industriale), lo stato profondo c’è. Dell’omicidio di Bobby, il cantante e attivista sociale Harry Belafonte ricordava che “una cospirazione non sono cinque persone che s chiudono in una stanza: una cospirazione è una congiura culturale”.
La collaborazione di Putin e la mediocrità di Hillary Clinton sono solo una parte dell’inspiegabile vittoria di Donald Trump, dopo otto anni del primo presidente nero. Da efficace forza di governo, il partito repubblicano è stato trasformato in comunità tribale che potrebbe garantire altri quattro anni a Trump.
In genere chi governa asseconda gli interessi di chi lo ha portato al potere. Il connotato che distingue i grandi statisti è la capacità di guardare il loro mondo e di cambiare. John Kennedy aveva sostenuto l’impegno in Vietnam; il primo lavoro pubblico di Bobby fu di entrare nella commissione di Joseph McCarty che vedeva comunisti dappertutto. Nelson Mandela aveva creato l’Umkhonto we Sizwe, un’organizzazione terroristica. Yitzhak Rabin odiava i palestinesi e Shimon Peres aveva creato decine di colonie. Sono stati tutti ambiziosi uomini di potere: non entri in politica senza queste spinte potenti. Ma hanno tenuto gli occhi aperti. Alzi la mano l’elettore fortunato che crede di essere conosciuto dal leader che ha votato.
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Allego il commento sulle Coree pubblicato qualche giorno fa dal Sole 24 Ore