Da Richard Nixon in poi, cinque presidenti avevano ufficialmente visitato Gerusalemme prima di lui e incontrato primi ministri, senza però riconoscere la città come capitale di Israele. Quella che Donald Trump ha definito “ipocrisia”, ordinando il trasloco dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, si chiama invece diplomazia. Lo sa anche lui ma ignorarlo temo sia il fulcro ideologico della sua opera distruttrice.
Sin dagli albori della presidenza – ricorderanno un giorno i memorialisti- Trump tentò d’ignorare le antiche consuetudini delle relazioni internazionali. Lo fece per la prima volta ricevendo la telefonata di congratulazioni della presidente di Taiwan, e chiedendosi ad alta voce che senso avesse “One China policy” se poi le Cine sono due: una a Pechino e l’altra a Taiwan. In quel caso il peso della Repubblica popolare lo costrinse a una telefonata riparatrice a Xi Jinping.
Se apprezzate la schiettezza di Trump, chiedetevi quanti conflitti hanno impedito le formule apparentemente retoriche che tuttavia sono il frutto di uno sforzo millenario del pensiero umano da Confucio al diritto romano, dalla pace di Westfalia a Yalta. Imperfetto per non aver cancellato le guerre, ma pragmatico da averne impedite molte.
Davanti a un albero di Natale e all’ugualmente muto vicepresidente Mike Pence, beniamino degli evangelici che sono più filo-israeliani degli stessi israeliani nazional-religiosi al governo, Trump sapeva tutto. Sapeva che nella consuetudine politica internazionale Gerusalemme è capitale dello stato ebraico da che esiste Israele: perfino alcuni leader arabi l’hanno visitata. Tutti noi l’abbiamo sempre dato per scontato (se questo può contare, in decenni di articoli non ho mai scritto “Tel Aviv” come sinonimo di governo israeliano perché quel governo è sempre stato a Gerusalemme).
E Trump sapeva che nei quartieri orientali esiste una Gerusalemme araba: musulmana e cristiana. Il costante tentativo del governo Netanyahu di ebraicizzarla con la forza non è ancora riuscito a modificarne il carattere. Senza che fosse eretto un muro, le due città sono sempre state separate, più o meno lungo la vecchia linea di demarcazione precedente al 1967. Gli israeliani non vanno a comprare la verdura a Salah ed-Din e gli arabi non prendono il caffè nei bar dell’isola pedonale di Ben Yehuda.
Donald Trump aveva una grande occasione. Dopo aver tolto il velo sulla finzione della Gerusalemme ebraica capitale-non-capitale d’Israele, avrebbe potuto affermare che anche l’altra Gerusalemme diventerà capitale della Palestina quando nascerà quello stato, alla fine del negoziato di pace. Invece non l’ha fatto, evitando di proposito quell’occasione. E qui non sono sicuro che c’entri il conflitto israelo-palestinese o il Medio Oriente, dei quali il presidente americano sa molto poco, continuando a fidarsi del genero Jared Kushner che dimostra di saperne quanto lui.
E’ forse più una questione di consenso e di prospettive politiche interne che internazionali. Avrete notato il volto di Mark Pence, il vice presidente: silenzioso come l’albero di Natale ma, diversamente da questo, palesemente contento per aver soddisfatto i suoi elettori cristiano-evangelici. Sostenitori d’Israele e della comune eredità biblica, nelle campagne elettorali gli evangelici sono più numerosi, più repubblicani e non meno ricchi degli ebrei americani.
Questi ultimi votano soprattutto democratico, in numero crescente sono secolarizzati e non automaticamente sostenitori dell’attuale governo d’Israele. Per molti di loro la città vecchia di Gerusalemme col Muro del pianto e la Spianata delle moschee, è come per i pionieri profondamente laici venuti dall’Europa orientale, che fondarono Israele: un luogo da evitare, pieno di zeloti e di sette.
Invece, come ricorda Peter Beinart sul sito del mensile “The Atlantic” https://www.theatlantic.com/international/archive/2017/12/trump-announcement-jerusalem-israel-capital-muslim-violence/547652/?wpisrc=nl_todayworld&wpmm=1,
l’idea di un’America giudeo-cristiana baluardo contro i conflitti religiosi, etnici o razziali, è centrale nel disegno di Trump. Il presidente “ha bisogno che i latinos violentino le giovani bianche, ha bisogno che gli atleti afro-americani manchino di rispetto alla bandiera (la protesta dei giocatori di football americano, n.d.r.). Più ci sono minacce non-bianche e non-cristiane, sia in casa che all’estero, più i suoi sostenitori di affidano a lui”. Nel caso di Gerusalemme Trump va oltre: “contribuisce a creare la minaccia”.