L’altra sera a Roma ero al tavolo di un ristorante in piazza Farnese. D’improvviso è arrivata silenziosa una colonna d’auto con scorta e lampeggianti, dalla quale è sceso il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian. Monsieur Le Ministre è subito entrato nella sua ambasciata, a palazzo Farnese, uno dei più belli della città, e la scorta si è dileguata senza provocare disagi alla gente.
Un amico ha spiegato che Le Drian era stato ospite della dodicesima Conferenza degli ambasciatori d’Italia all’estero, alla Farnesina. C’era anche il ministro spagnolo. Ma come – mi son detto- ci chiudono i porti, i francesi ci sottraggono il primato sulla Libia e stanno preparando il furto sovranista ai danni di Fincantieri, e noi li invitiamo? Tra rompere le relazioni diplomatiche e un esagerato fair play, la diplomazia offre molte possibilità.
Alla luce di tutto questo mi sono chiesto a cosa servisse l’annuale messa cantata alla Farnesina. Un senso lo avrebbe se 130 ambasciatori fossero convocati a Roma per un brainstorming su cosa non va della nostra politica estera: se sia giusto o no rimandare l’ambasciatore al Cairo, come creare un “sistema paese”, promuovere l’economia, selezionare e addestrare i giovani, le carriere e lo svecchiamento, eccetera. Un brainstorming naturalmente a porte chiuse, nel quale dirsi cose utili.
Invece è stato una specie di festival di San Remo, ospiti stranieri compresi, nel quale chiunque parlasse sapeva di essere su un palcoscenico mediatico. Spesso una fiera delle vanità e della logorrea. Sono state perfino ripartite interviste: a questa feluca, quel giornale. L’iniziativa ha svelato qualche caso imbarazzante di sindrome di Stoccolma. La cosa peggiore che si possa fare a un ambasciatore è fargli un’intervista: per obbligo professionale è costretto alla banalità. Il meglio di se lo da’ nelle conversazioni off the record, dove può esprimere in libertà e competenza la sua capacità di giudizio.
Questa lunga premessa per arrivare a Macron, alla Libia e a noi. Ammettiamolo: oui, ils nous ont amaqués. Ci hanno fregato. Ma chiedendoci onestamente il perché, potremmo dare loro torto? Se foste Fayez al-Sarraj o Khalifa Haftar e riceveste contemporaneamente e per lo stesso giorno un invito all’Eliseo e uno a Palazzo Chigi, a chi direste di si?
Partiamo da un dato statistico. L’attuale legislatura ancora in corso ha prodotto tre presidenti del Consiglio (Letta, Renzi, Gentiloni) e quattro ministri degli Esteri (Bonino, Mogherini, Gentiloni, Alfano, l’ultimo dei quali non mi sembra molto interessato alla materia). Forse questa mischia serve alla stabilità del paese. Ma fuori è debito di credibilità. Con quale impudenza se non con la convinzione di non temerne le conseguenze, il ministro degli Esteri austriaco Kurz ha potuto dire ad Alfano che l’Italia deve tenere i migranti a Lampedusa? Quel giovane naziskin (definizione del sindaco dell’isola) avrebbe detto qualcosa del genere a Le Drian?
Potremmo anche sostenere che l’errore dell’Italia è avere ignorato a lungo Haftar. Il piccolo Napoleone della Cirenaica sostenuto dall’egiziano al-Sisi – un Napoleone poco più grande di lui – ha lombrosianamente i connotati del generale golpista. Ma esiste. Tuttavia neanche questo basta per capire. Oltre alla nostra instabilità politica e a qualche errore diplomatico, esiste la Storia che fa la grande differenza tra noi e i francesi.
In qualsiasi modo abbia governato Berlusconi, cosa abbiano fatto Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, fra alti e bassi la Francia esercita il ruolo di grande potenza da mezzo millennio. Il senso di appartenenza dei suoi cittadini non si esercita solo alle feste comandate; lassù il “sistema paese” c’è davvero. Assomigliandoci più di altri europei per atteggiamenti e passioni, è come se i francesi fossero degli italiani che hanno avuto successo nella vita.
Avere una politica di potenza significa anche esercitarla usando la forza militare. So di dire qualcosa di controverso: anche riguardo alle mie idee personali. Ma come ieri, anche oggi un paese che minaccia di bombardare e manda le truppe è più credibile e ottiene di più. Per scelta l’Italia si affida al dialogo, alla mediazione, alle istituzioni internazionali. Vedi il sostegno a Sarraj: il riconoscimento Onu a noi bastava, ad altri no. Per mettere una pezza, ieri Gentiloni giustificava Macron ma mi chiedo cosa ci sia di multilaterale nell’iniziativa francese.
Credo che l’Italia faccia bene ad adottare questa politica. Piacciamo quasi a tutti, anche se è quella simpatia che si concede a chi non si teme. Soprattutto è la politica che deve avere una piccola potenza regionale come l’Italia: purché ammettiamo di essere questo. L’alleato da imitare non è la Francia ma la Germania la cui storia è simile alla nostra: non interviene nei conflitti, si affida alle istituzioni multilaterali ma è più credibile perché ha stabilità politica, pace sociale, esporta di più e il suo orgoglio nazionale non è una saltuaria manifestazione di sciovinismo ma è fondato su una pacata concretezza.
Tornando a Macron, dopo tante manifestazioni di grandeur nazionale – Putin, Trump, il rifiuto dei porti, la Libia – sarebbe bello se facesse anche qualcosa di europeista: nella questione Fincantieri non ce n’è ombra. La festa elettorale davanti al Louvre aperta con l’Inno alla gioia, è rimasta solo un inizio.