Per conto dell’Istituto di studi di politica internazionale, l’Ispi di Milano, ho partecipato a Delhi al secondo “India Think Tank Forum”, una specie di congresso internazionale dei centri studio che si occupano dell’India e del mondo. Il tema era “Potenziale e potere della partnership nazionale, regionale e globale”. Si è parlato di tante cose ma soprattutto dello stato della globalizzazione.
A che punto è, chi la governa, che ne sarà di lei e dunque di noi. Alla fine la cosa più interessante è scoprire che nessuno è del tutto certo di cosa stia accadendo e in quale direzione il mondo stia andando. E la cosa più confortante è che siamo sulla stessa barca, pieni di ansie, in mezzo all’oceano della globalizzazione. Sette miliardi e passa di Ulisse.
La narrativa è quella che conosciamo tutti: l’America sta abdicando al suo ruolo; l’Europa unita è tanto ricca quanto poco muscolosa per tenere alta la bandiera dell’Occidente; Cina e India seguite da uno stuolo di nuovi attori di quella immensa e popolosa regione, segnalano l’imminente affermazione di un secolo asiatico. Un trasferimento da Ovest a Est, da Occidente a Oriente. Per eventuali correzioni, ripassare non prima del prossimo secolo.
Ma i tempi non sono così repentini come spesso raccontano i giornali, e i mutamenti non così semplici. Per gli indiani, per esempio, globalizzazione è ansia da Cina e poco altro. Obor – la One belt one road cinese – non è uno strumento per accorciare le distanze commerciali del mondo ma “una visione geopolitica”, “il commercio internazionale secondo i termini cinesi”, “un Pechino consensus al posto del Washington consensus”, “una trasformazione egemonica”.
Forse è vero che per i cinesi la globalizzazione continuerà ad esistere se prima poi la guideranno loro. Ma, ancora, non è così facile. La difficoltà di noi occidentali è stato scoprire che ad un certo punto siamo diventati un po’ più poveri e i nuovi venuti della globalizzazione più ricchi: come se la torta della ricchezza mondiale fosse di una data dimensione, costringendo europei e americani a ritagliarsi fette più piccole. La globalizzazione ci impoverisce e dunque va eliminata. E’ una spiegazione grossolana. La globalizzazione e gli accordi commerciali che ne sono le colonne, non sono falliti: le regole le hanno imposte i Ceo e i Cda delle multinazionali e delle grandi aziende nazionali, arricchitisi in modo abnorme a spese nostre. Basta metterli al loro posto e riformare, non distruggere la globalizzazione.
Ma anche i cinesi hanno i loro problemi: produrre un soft power che abbia qualche capacità d’attrazione, è uno di questi. Quali valori politici e di uguaglianza esprime quel che resta del Pcc, a parte l’antica esortazione di Deng: ”arricchirsi è glorioso”? La Cina ha un sistema politico opaco e contemporaneamente è diventata il settimo paese più connesso al mondo. Oggi il contratto sociale cinese è il potere politico assoluto di chi governa, in cambio della capacità del sistema di distribuire ricchezza ai governati. Quanto durerà?
In quanto esseri umani, tendiamo a credere che quel che vediamo oggi sia d’importanza capitale per il destino nostro e di coloro che verranno dopo di noi. Così l’esistenza politica di Donald Trump ci induce a pensare che sia iniziata la fine dell’America. Rinunciare all’egemonia non significa scomparire, ritirarsi dalla mischia inutile (per esempio il Medio Oriente) non è declinare ma fare delle scelte. La capacità del soft power americano come dell’europeo, pur tra alti e bassi rimane senza uguali. Si chiama democrazia e se chiedete ai popoli, non ai loro governanti, ha ancora una grande attrazione.
Guardiamo il lato positivo, opposto alla parte oscura dello sconcertante pianeta Trump. Il suo sovranismo, l’anti europeismo e il rifiuto di assolvere ai compiti di leader d’Occidente, stanno dando alla Ue una vitalità inaspettata, dopo il dramma di Brexit. Così per l’India è l’istinto cinese alla grandeur globalista: dopo decenni d’inutili tentativi, il primo luglio entrerà in vigore il GST, la tassa sui beni e servizi, il primo sistema fiscale omogeneo a tutti gli stati indiani che ridurrà la gigantesca evasione interna e renderà più semplici gli investimenti stranieri. Stimolato dall’invadenza geopolitica cinese, l’India ha anche deciso di avere un profilo economico, politico e militare più determinato in Asia Meridionale, il suo “giardino di casa”.
Quello che si sta determinando è un mondo multipolare e più complesso di prima. Se pensiamo ai disastri della prima e seconda guerra mondiale, un sistema di questo genere non è una garanzia di stabilità. Per questo non dobbiamo perdere di vista l’avidità economica dei Ceo e quella dei politici dalle tentazioni egemoniche.
Ps. Non ho dimenticato la Russia. Ma in questo contesto una potenza che pensa di essere protagonista nel XXI secolo con gli stessi strumenti del XX e del XIX (autoritarismo, Dio-Patria-e-Famiglia, potenza militare, zero riforme economiche ma presenza fisica e armata in Europa orientale e Medio Oriente), non ha spazio. La Russia sta al sistema globale come la Lega di Salvini a quello italiano: celodurismo, sovranismo e paura dello straniero.