MUMBAI – “Ancora sei, sette anni al massimo e la nostra sarà un’economia da 4mila miliardi di dollari”, è convinto Sunil Singhania, capo degli investimenti di Reliance Mutual Fund. Al momento il Pil indiano è attorno ai 2,5 trilioni, con una crescita prevista per quest’anno di circa il 7%. L’osservatorio dal quale Singhania intravvede un così brillante futuro, è autorevole. Reliance Industries è la conglomerata più grande del paese e a febbraio Mukesh Ambani, il proprietario, ha festeggiato a Mumbai il suo cento milionesimo cliente.
Un ventennio prima, quando la città si chiamava ancora Bombay (in realtà nessuno ha mai smesso di chiamarla così) per convocare l’assemblea degli azionisti di Reliance fu noleggiato lo stadio del cricket di Marine Drive, vicino alla Borsa. Ambani, Antilia – la sua nuova casetta da un miliardo di dollari, 27 piani, 175 metri nel centro di Mumbai – e le previsioni sull’economia, sono parte della narrativa dell’India contemporanea fondata sull’ottimismo. L’economia cresce, le riforme proseguono e ora le folgoranti vittorie del Bjp di Narendra Modi, un’elezione dopo l’altra, al centro e negli stati dell’Unione, garantiscono una stabilità rara per il sistema politico indiano.
Il problema è essere parte di questo quadro, investire, commerciare con l’India, partecipare in qualche modo alla sua crescita. Noi, l’Italia, non siamo in una posizione favorevole. La vicenda di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due maro accusati di avere ucciso due pescatori del Kerala mentre erano in missione anti-pirateria nell’Oceano Indiano, ha congelato per cinque anni i nostri rapporti con l’India.
Ora però sembra che la soluzione sia imminente: molto più vicina dell’arbitrato internazionale e della scelta della Corte del mare di Amburgo di rinviare alla fine del 2018 la decisione su chi spetti fra Italia e India dare un giudizio finale. All’inizio di marzo il segretario generale del ministero degli Esteri indiano, Elisabetta Belloni, era a Delhi. La visita era informale ma fonti della Farnesina confermano che è stato aperto un negoziato con le autorità indiane per una soluzione che soddisfi entrambe le parti, evitando di arrivare a un pericoloso confronto ad Amburgo.
Passate le elezioni che avevano infiammato gli animi del Kerala, dove era avvenuto l’incidente, e uscito dal governo centrale il Congress di Sonia Gandhi (le sue origini italiane sono sempre state più un problema che un vantaggio per noi in India), da parte indiana quella dei marò non è mai stata percepita come una questione politica quanto lo è da noi. Nessuno fra le persone incontrate a Delhi e Mumbai – politici, imprenditori, esperti e direttori di giornali – ha mai sollevato il caso. Qualcuno nemmeno lo ricordava.
“I politici devono segnalare con molta chiarezza che qualsiasi problema ci sia stato, è finito”, aveva detto nel suo ufficio di Delhi Didar Singh, il potente segretario generale di FICCI. “Il business fra noi è stato condotto come sempre ma ora è importante che anche i nostri leader ci diano un segnale in questo senso”.
Tuttavia, in questi anni quanto sono costati agli investimenti e alle opportunità dell’Italia cinque anni di assenza di relazioni politiche con l’India? “E’ difficile valutarlo nei numeri”, risponde Lorenzo Angeloni, l’ambasciatore italiano a Delhi. “A causa della crisi internazionale, fra il 2012 e il 2016 l’interscambio è calato per tutti e ora sta riprendendo per tutti”. Secondo i dati dell’ufficio ICE di Delhi, l’Italia era e resta il quinto partner dell’India fra i paesi Ue e il ventitreesimo nell’insieme. Nell’anno finanziario 2014/15 l’interscambio è stato di 9,3 miliardi di dollari (1,12% meno dell’anno precedente) e le esportazioni italiane di 5,09 miliardi (meno 3,42%). Dal 2013 le nostre imprese in India sono 586: non ne sono venute di nuove ma chi c’era non ha smobilitato.
“Il problema vero”, sottolinea però l’ambasciatore Angeloni, “è quanto costi a un paese e alla sua politica non avere contatti né visite per cinque anni. In questo senso il prezzo che abbiamo pagato è alto: mentre vivevamo in questo vuoto Angela Merkel è venuta a Delhi con sei ministri; François Hollande è stato il primo capo di stato europeo invitato alla parata del 25 gennaio, la festa della Repubblica”. E intanto l’ipotesi di creare un partenariato strategico fra Italia e India, che allora si stava negoziando, è scomparsa dall’orizzonte.
L’ultima visita italiana risale al febbraio 2012, appena dopo l’incidente in Kerala, quando l’allora ministro degli Esteri Giulio Terzi fu comprensibilmente accolto con estrema freddezza. Per vedere l’ultima missione economica prima di quella in corso organizzata in questi giorni da Governo, Confindustria e le due grandi associazioni imprenditoriali indiane CII e FICCI, bisogna andare ancora più indietro: al 2009.
Molte cose stanno accadendo in India. Il tentativo di riforma più glorioso è il Gst, la nuova tassa indiretta su beni e servizi che vuole semplificare il sistema perché il fisco sia accessibile agli indiani. E’ un passo per spingere l’economia informale del paese, quasi il 60%, verso il settore formale e per ridurre la monumentale evasione fiscale. E’ per questo che con terapie d’urto come l’improvvisa demonetizzazione, il governo vuole spingere il paese verso un gigantesco sistema di monetizzazione digitale. Forse nel 2023 l’economia non raggiungerà i 4mila miliardi di dollari promessi da Sunil Singhania, ma ci andrà vicino. In ogni caso tutto lascia credere che convenga esserci in India, nei prossimi anni.
(1-continua)
*Essendo mancato in questo ultimo mese e mezzo lo spazio per pubblicarlo sul giornale, in questi giorni festivi offro con piacere ai lettori di Slow News il mio reportage di due puntate sull’India e le sue riforme.