La prima guerra di Donald Trump dimostra una volta di più la malefica capacità attrattiva del Medio Oriente: per quanto si demonizzino quel luogo e i suoi problemi, per quante promesse di starne alla larga un candidato faccia in campagna elettorale, il presidente in carica non può mai sfuggire a quella realtà.
Ma il breve, contenuto, primo e – si presume – unico bombardamento americano diretto contro il regime di Bashar Assad, rivela cose più importanti e più vaste della sola geopolitica mediorientale. Il vero obiettivo politico non era tanto punire il dittatore di Damasco quanto ammonire Vladimir Putin e Xi Jinping, i veri concorrenti degli Stati Uniti in una dimensione molto più ampia del semplice Levante.
Sono accadute cose in questi giorni a Washington fra la West Wing della Casa Bianca, il dipartimento di Stato a Foggy Bottom e il Pentagono, giusto oltre il Potomac, in Virginia. C’è stato uno scontro molto duro per definire ruoli e obiettivi della politica estera americana nell’epoca di Donald Trump.
Da una parte i nazionalisti che avevano dato il tono alla campagna elettorale del candidato, sussurrandogli la promessa di un mondo nel quale l’America avrebbe pensato a se stessa, cercando un nuovo alleato politico a Mosca e un nuovo nemico non solo commerciale a Pechino. Stephen Bannon che guidava questa corrente della destra radicale repubblicana, ha forse pensto di imitare alla rovescia Nixon e Kissinger che 40 anni fa avevano aperto a Mao per isolare Breznev.
Dall’altra c’erano gli internazionalisti che del ruolo globale degli Usa hanno una visione molto diversa: la difesa delle alleanze e degli accordi commerciali, l’ostilità per i muri, l’uso della forza militare a sostegno delle attività diplomatiche. Per loro la Russia non è necessariamente un nemico ma per storia e cultura, un naturale avversario; e la Cina è un partner al quale tuttavia ricordare quale, fra lei e gli Usa, è la superpotenza. I sostenitori di questo pensiero sono le Forze armate, Goldman Sachs, ExonMobil i cui uomini sono stati scelti da Trump per definire economia, sicurezza e politica estera della sua amministrazione. In poche settimane, dopo uno scontro tanto duro quanto breve con i nazionalisti, hanno conquistato la scena a Washington.
Li possiamo anche chiamare il deep state, lo stato profondo che spesso è una forza oscura e a volte impedisce le riforme di un paese. Ma che altre volte garantisce continuità ed equilibrio all’interesse nazionale. Nessuno degli internazionalisti sogna una nuova Guerra fredda ma per gli interessi strategici ed economici che rappresentano vogliono che sia l’America e non la Russia la forza globale più credibile, l’America e non la Cina la custode dei mercati globali.
Questo dimostra un’altra conseguenza del bombardamento sulla Siria. Posto ce ne fosse bisogno, il ritorno dell’assertività americana afferma per un’altra lunga stagione la vittoria definitiva dello hard power sul soft power: l’uso della forza è più efficace della diplomazia. O quanto meno, ad essere ottimisti, la constatazione che la seconda funziona meglio se è accompagnata dal dispiegamento della forza militare e dalla palese volontà di usarla. E’ una versione moderata di un sistema internazionale che continua a restare più hobbesiano che altro.
In questi anni Vladimir Putin è stato la prova vivente che la determinazione a usare la forza anche senza avere i mezzi dell’avversario (il Pil russo è di 1,3 mila miliardi di dollari, quello americano di 18mila), alla fine paga molto in termini di potere geopolitico. E mentre affermava il suo profilo di leader globalist, presentandosi al World Economic Forum di Davos – l’antitesi del maso chiuso di Trump – da ann Xi consolidava la forza militare convenzionale e nucleare della Cina.
Ci sono due interessanti coincidenze con il bombardamento in Siria: due giorni prima Bannon era stato estromesso da un ruolo da protagonista della sicurezza nazionale; e l’attacco è avvenuto mentre Xi Jinping arrivava in Florida. La prima delle coincidenze riguarda più gli equilibri di potere americani, la seconda la sicurezza mondiale. E’ difficile non pensare che il presidente cinese non si sia chiesto con preoccupazione se Trump abbia in mente di bombardare anche la Corea del Nord. Se forse il bombardamento in Siria non avrà conseguenze – è probabile che da domani nel Levante tutto torni come l’altro ieri – un attacco a Pyngyang non resterebbe circoscritto, ne seguirebbe probabilmente un’escalation militare. E’ quello che lo stato profondo che è tornato a governare a Washigton, non vuole. Ma da oggi, in un mondo troppo multipolare per essere sicuro, è meglio avere qualche dubbio.