Come accade sempre in questi casi, nell’incertezza del risultato elettorale e con le chiusure incombenti non agevolate dal fuso orario americano, il giornale mi aveva chiesto di scrivere tre pezzi: uno “neutro” per la prima edizione che avrebbe chiuso molto prima dello spoglio dei voti negli Stati Uniti, e due per la seconda in piena notte, a risultato acquisito. Un articolo era dedicato a Hillary Clinton vincitrice e uno su Donald Trump vincitore. Sfortunatamente, quest’ultimo è uscito. L’altro no. Lo posto a futura memoria su Slow News, con un certo senso di nostalgia rispetto a quello che avrebbe potuto essere. Anche se non apprezzate Hillary (nemmeno io ne vado pazzo) e non siete d’accordo con la politica estera che avrebbe espresso, temo che nei quattro anni in cui governerà, Trump ce la farà rimpiangere.
di Ugo Tramballi
“Le grandi nazioni hanno bisogno di principi organizzativi. ‘Non fare cose stupide’ non è un principio organizzativo”, disse Hillary Clinton al magazine “The Atlantic” che più di tutti raccoglie il pensiero del potere di Washington. L’ex segretaria di Stato, che nel 2014 già intendeva correre per le presidenziali, aveva atteso un po’, prima di lanciare il suo siluro alla sintesi che quattro mesi prima Barack Obama aveva fatto della politica estera della sua lunga amministrazione.
Difficile non definirlo un ripudio, visto che in particolare Hillary si riferiva a quello che per lei era l’”errore” più grave di Obama in Siria: essersi rifiutato di armare i ribelli aveva favorito la nascita dell’Isis. E soprattutto difficile non considerare quella puntualizzazione sui principi organizzativi della potenza americana, un punto di partenza per cercare di capire quale politica estera avranno gli Stati Uniti sotto la presidenza di Hillary Clinton.
“Clinton e Obama si sono trovati più in accordo che in disaccordo”, scrive Mark Landler, corrispondente diplomatico del New York Times nel suo saggio “Alter Egos – Hillary Clinton, Barack Obama and the Twilight Struggle Over American Power”. “Entrambi hanno preferito la diplomazia alla forza bruta. Entrambi hanno evitato l’unilateralismo degli anni di Bush. Entrambi sono avvocati impegnati nel preservare le regole di base dell’ordine che gli Stati Uniti hanno introdotto dopo il 1945. Eppure, mentre questo ordine ha incominciato a frantumarsi, hanno mostrato istinti molto diversi su come salvarlo”.
In una calda sera dell’estate 2015, l’ospite d’onore di una cena nella casa di un uomo d’affari egiziano legato al presidente al Sisi e nostalgico di Hosni Mubarak, era Leon Panetta, molto vicino a Hillary Clinton. La sua visita aveva probabilmente un fine politico: rassicurare il regime egiziano che dopo le elezioni dell’anno successivo, la nuova presidente avrebbe avuto più considerazione degli alleati storici degli Stati Uniti, di quanta non ne stesse dimostrando Barack Obama. Come spiega anche Hillary nelle sue memorie, “Hard Choices”, nei giorni concitati della rivolta di piazza Tahrir, al Cairo, lei era contraria ad abbandonare un alleato prezioso come Mubarak: occorreva tempo per una transizione ordinata. Dopo 30 anni di dittatura non sarebbe stato facile creare partiti, un parlamento, un’opposizione e riadattare la costituzione egiziana. Obama invece, pretendeva le dimissioni “adesso”. Come rimarcò il suo portavoce Robert Gibs, “adesso è iniziato ieri”. Secondo Mark Lander del New York Times, “la cosa che più temeva Obama era di non trovarsi dalla parte giusta della storia”. Clinton invece aveva fiducia “nell’abilità americana di influenzare gli eventi nei paesi agitati dalla tempesta” delle Primavere arabe.
Di Bill Clinton Leon Panetta era stato il chief of staff alla Casa Bianca, con Obama il segretario alla Difesa e il direttore della Cia. Quella sera mentre aspettavamo la cena sul Nilo, Panetta spiegò le differenze fra coloro per i quali aveva governato. Obama era un intellettuale idealista che non amava lo scontro politico. Bill e Hillary, invece, sembravano fatti per quello: amavano invischiarsi nelle dispute, passando agevolmente dalla lotta al compromesso che della politica è l’essenza. “Washington e il mondo –concluse – alla fine non sono che questo”.
Ci sono altre differenze fra Obama e il suo ex segretario di stato che aiutano a spiegare quale America Hillary Clinton mostrerà a nemici e alleati. “Mademoiselle, sono convinto che il suo talento risieda altrove”, aveva detto l’insegnante di lingue, alla fine di una complicata lezione di francese. Quando Hillary entrò al college non parlava alcuna lingua straniera e aveva visitato solo la parte canadese delle cascate del Niagara. Obama parlava swahili e aveva già vissuto in Indonesia. Sono esperienze che aiutano a spiegare perché la nuova presidente Clinton crede profondamente nella definizione dell’America che il presidente Barack Obama non ha mai fatto sua: la nazione indispensabile per la stabilità del mondo.
Nella storia degli Stati Uniti l’ultimo segretario di Stato a occupare la Casa Bianca fu James Buchanan, nel 1857, che con i suoi errori rese impossibile ad Abraham Lincoln, suo successore, evitare la guerra civile. Ma questo conta poco per le statistiche e le previsioni politiche. Conta invece la differenza fra essere nati nel 1947 come Hillary, piuttosto che nel 1961 come Obama. La prima ha maturato le sue visioni politiche nella Guerra fredda, il secondo in un mondo apparentemente più pacifico ma con molte più incertezze. Se il presidente uscente ha creduto nella possibilità di eliminare gli arsenali nucleari, l’entrante li considera un necessario deterrente. Quanto all’accordo sul nucleare iraniano, Clinton lo sosterrà ma diversamente da Obama, legherà la sua tenuta ai comportamenti di Teheran nella regione. Mai più le truppe americane combatteranno una guerra terrestre: anche Hillary è d’accordo ma durante la campagna elettorale ha più volte sottolineato l’urgenza di una “intensificazione e accelerazione” della presenza militare in Medio Oriente. La sua America tornerà a presentare un profilo più marcato in ogni crisi internazionale, anche con la forza delle sue armi. L’Asia continuerà ad essere il “pivot” anche della nuova amministrazione. Ma restano il Medio Oriente e le relazioni con la Russia le arene nelle quali la presidenza americana ripristinerà la sua credibilità. Di questo Hillary è molto più convinta di Barack.
Già che ci sono, allego anche il pezzo su Trump, poi uscito.