Per seguire le elezioni israeliane, dopo due anni di assenza sono tornato in questa città che, insieme a Beirut, per me è casa. Famiglia per me sono i libanesi e sono, allo stesso modo, israeliani e palestinesi. Una strana parentela maturata in anni e anni di frequentazione, a partire dai miei vent’anni.
Ieri sera ho incontrato un vecchio amico palestinese di Gerusalemme. E questo è ciò che mi ha detto.
“Ben tornato Abu Dawood (Padre di Davide, è il mio nom de guerre da queste parti, n.d.r.). Qui le cose vanno come al solito. Gli israeliani costruiscono attorno a noi, costruiscono fra noi, nei nostri quartieri. Lentamente ma con determinazione, vogliono fare di Gerusalemme una città di soli ebrei. La polizia ci ferma per strada e ci chiede i documenti: a noi, a casa nostra. L’altro giorno un ebreo con gli occhi a mandorla emigrato dall’Uzbekistan o dal Tajikistan, mi ha chiesto: “Da dove vieni?”. A me, che vivo sul Monte degi Ulivi da non so quanti secoli!
Ma ora voi siete preoccupati dall’Isis, vi spaventano la Libia, la Siria e l’Iraq. Non scrivete più articoli su di noi. Vi interessa altro. E non capite che ogni volta che uno di quei bastardi del califfato parla di Islam, ogni volta che un ayatollah iraniano minaccia gli israeliani, frega noialtri, quaggiù. Certe volte, che Dio mi perdoni, non mi importa di essere un musulmano, quasi mi dispiace.
Così, nel disinteresse internazionale, succede che ogni tanto un cretino dei nostri esca di senno e aggredisca gli ebrei, uccidendone qualcuno. E noi, tutti noi, subiamo una punizione collettiva perché il colpevole non è quell’esaltato ma noi, popolo palestinese. E’ facile dire terrorismo, tecnicamente lo è: ma come fate voialtri a usare per lui la stessa definizione che usate per l’Isis o al Qaeda? Qui a Gerusalemme viviamo un’occupazione asfissiante che non ha vie d’uscita. Ad ogni giorno che finisce sappiamo che ce ne sarà un altro, uguale.
Ti stupisce che abbia di nuovo in mano un bicchiere di vodka? Lo so, te lo ricordi, sette anni fa avevo fatto hajj alla Mecca, ero tornato avvolto in un lenzuolo candido, promettendo che non avrei più toccato alcol né fumato tabacco. L’ho fatto, ma tutti mi dicevano: come sei invecchiato. Cosa ci guadagnavo a rimanere immacolato, qualche anno di vita in più? Per cosa?
Io sono già un sopravvissuto qui a Gerusalemme. Tutti noi palestinesi siamo dei sopravvissuti, schiacciati fra l’occupante e una dirigenza palestinese mediocre, incapace e corrotta. Sanno solo come ricavare soldi anche dall’occupazione.
Io sono un patriota, non loro. Non ho mai indossato una cintura esplosiva, non sono mai sceso in strada con una bandiera palestinese. Il mio patriottismo è stato sopravvivere qui, a Gerusalemme. Costruire una casa e trovare un lavoro qui, a Geruslemme, per ognuno dei miei quattro figli maschi. Ora ho anche 12 nipoti. Noi siamo qui, restiamo qui. Esattamente come fece mio padre, tanti e tanti anni fa. Scappammo in Giordania per qualche mese, lasciando la nostra casa di Gerusalemme Ovest, nel quartiere di German Colony. Oggi ci vivono degli israeliani e dopo così tanto tempo hanno diritto anche loro di chiamarla casa. E’ la fregatura di questo conflitto: dura da così tanto tempo che anche chi ci ha rubato la vita ha conquistato dei diritti.
Poi una mattina mio padre disse: la Giordania non è casa nostra. E riattraversammo al contrario il ponte di Allenby sul Giordano per restare qui per sempre, chiunque sia l’occupante israeliano, chiunque sia il mio corrotto leader palestinese. Noi non siamo profughi, il nome della mia famiglia non è mai stato nelle liste delle Nazioni Unite. Ho dato una casa e un’occupazione a ognuno dei miei quattro figli maschi come mio padre aveva fatto con i suoi.
Noi siamo palestinesi di Gerusalemme, sopravvissuti nella nostra stessa città”.
Dicendolo, il mio vecchio amico ha bevuto l’ultimo sorso del suo terzo bicchiere di vodka. Se silenziosamente desiderato piangere per lui, non era per la sua storia. Qui a Gerusalemme ce ne sono tante come la sua: una storia per ognuno dei 260mila palestinesi della città araba. Era l’assenza di rancore nella voce del mio amico: non lo portava più per l’occupante e nemmeno per il destino. “Hanno trovato un cancro a uno dei miei quattro figli, quello di 36 anni che mi ha dato tre nipoti femmine una più bella dell’altra. Domani incomincia il suo primo ciclo di chemio ma so che ce la farà, che guarirà: è un giovane tenace. Vieni, andiamo a farci il bicchiere della staffa”.