In questi sei anni di presidenza, Barack Obama ci ha abituati a un’eccessiva dicotomia fra le promesse e i risultati; fra la grandiosità dei suoi discorsi, alla Abraham Lincoln, e la mediocrità dei suoi risultati, alla George Bush (il giovane). L’ultimo Stato dell’Unione nella notte fra martedì e mercoledì, sembra far parte della stessa categoria degli altri discorsi: belli ma impossibili.
Il giudizio finale della sua presidenza che un giorno sempre più vicino sarà espresso, dovrà probabilmente tenere conto delle esagerate aspettative che si erano create attorno ad Obama, indipendentemente da Obama. Ma il bilancio a metà strada del secondo mandato, cioè più vicino alla fine che al punto di partenza di questa epoca presidenziale, è obiettivamente scarso. Dall’Obamacare al Medio Oriente, proprio non si può parlare di successi.
Eppure sono stato affascinato dalla capacità oratoria, dal coraggio e dai contenuti che Obama ha messo in mostra sulla collina del Campidoglio. Ammetto che uno dei punti di mio maggiore consenso personale fu quando, dopo aver seguito le primarie democratiche, tornai in Italia carico di magliette e di manifesti con quel “Yes, we can!”, regalandoli a figli e amici. Sono dunque di parte. E l’altra notte Obama mi ha fregato ancora una volta, spingendomi a crederci.
Ci pensate? Almeno 320 miliardi di dollari in dieci anni di tasse imposte ai super-ricchi, a favore della classe media. In confronto Robin Hood sembra un barelliere della Croce Rossa. Quella stessa middle class che è uscita dalla grande depressione, che ha combattuto il nazi-fascismo, che nel dopo guerra ha costruito la più grande crescita economica del mondo dopo la Cina di oggi (ma democraticamente). Quella classe media americana che ha fatto l’America come quelle europee hanno fatto l’Europa. Loro, non le grandi lobbies né i Trangugia & Divora finanziari.
Sul piano internazionale ci sarà la riappacificazione con Cuba e la fine di un anacronistico Muro in America Latina: all’Havana non governa Thomas Jefferson, ma con quanti dittatori nel resto del mondo gli Stati Uniti hanno fatto affari e continuano ad avere buone relazioni? Perché non è mai stato imposto un bloqueo al Kazakistan –giusto per dirne uno – dove da un’epoca immemore, prima come segretario del Pc poi da presidente, comanda Nursultan Nazarbayev?
Potrebbe esserci anche un grande compromesso sul nucleare iraniano. Se sarà firmato non pacificherà d’improvviso il Medio Oriente ma potrebbe essere una straordinaria occasione per incominciare a lavorarci su seriamente. E perché non pensare che un Barack Obama determinato come il quarter back dei New England Patriots, favoriti alla finale del Superbowl, prima di andarsene non imponga il suo compromesso a israeliani e palestinesi, platealmente incapaci di trovare il loro?
Un presidente a meno di due anni dalla fine del suo mandato e con le due Camere piene di repubblicani incattiviti, vendicativi e piuttosto ottusi (l’ultimo aggettivo è tutto mio), è per definizione un lame duck, un’anatra azzoppata. Ma perché non sognare un’ultima volta che l’America possa essere utile a se stessa e al mondo?
Chi avrà visto il discorso di Obama, avrà notato alle sue spalle il volto antipatico di John Bohener, House speaker repubblicano. Daily Beast ha messo online “The Best of John Boheners Microexpressions”, nelle quali Bohener si è esibito durante il discorso sullo Stato dell’Unione. E’ lo stesso simpaticone che qualche ora dopo aver digrignato i denti sulla testa di Obama, ha ufficialmente invitato Benjamin Netanyahu a Washington a tenere l’ennesimo discorso. Bibi in Campidoglio è come Rocky Horror Picture Show a Broadway: una replica senza fine.
Titolo della prossima rappresentazione: la minaccia dell’islamismo iraniano e i mezzi fermarlo, a cominciare da nuove sanzioni all’Iran nel pieno di un negoziato promettente. Tutto questo avverrà a metà febbraio: a un mese dalle elezioni israeliane e a uno dalla conclusione della trattativa sul nucleare. Siamo ai limiti del tradimento alla patria.