Ho trovato insopportabile l’arroganza di Bibi Nertanyahu, autoinvitatosi a Parigi per fare la sua campagna elettorale (in Israele si vota a marzo) e per offendere un Paese più grande e civile del suo. Presentatosi a testimoniare tolleranza e libertà, lui che sta cavalcando l’involuzione della democrazia israeliana in Stato etnico-fondamentalista nel quale il 20% della popolazione, gli arabi, saranno cittadini senza o con meno diritti.
Mi ha fatto arrabbiare sentire Netanyahu dire che gli ebrei francesi, e di conseguenza quelli di tutta Europa, sono al sicuro solo in Israele. Ma sono esploso dalla rabbia constatando che ha ragione: detesto riconoscere che Bibi Netanyahu possa avere ragione.
E’ vero, gli ebrei europei sono in pericolo a casa loro. Ormai lo siamo tutti: ma loro di più. Nemmeno in Israele gli ebrei che vi emigrano sono al sicuro, in realtà: ma facendo aliyah si assumono volontariamente delle responsabilità. Sanno di andare in un Paese dove loro e i loro figli indosseranno la divisa e molto probabilmente andranno ad un fronte. Ma non un ebreo di Parigi, di Milano o di Torino, in tutto e per tutto parigino, milanese o torinese come noi, cristiani. Fa la spesa, va a scuola, al lavoro, allo stadio, scende a passeggio col cane: ma facendo tutte queste attività come parte di una quotidianità banale, confortevole, voluta come la vogliamo noi, è più in pericolo dei suoi concittadini non ebrei.
La stragrande maggioranza dei musulmani immigrati, italiani di prima e seconda generazione, non ha nulla a che fare con il califfato, al Qaida o qualsiasi altra forma di estremismo religioso. Detestano quello che è stato fatto a Parigi. Ma se chiedete cosa pensano degli ebrei, una importante percentuale – temo la maggioranza – non si discosterà molto dall’odio manifestato dai terroristi di Parigi.
Non è antisemitismo: i veri antisemiti continuano ad essere gli europei di estrema destra, che si definiscono cristiani. Nei nostri musulmani la questione palestinese, l’occupazione israeliana e gli ebrei vengono messi confusamente sullo stesso piano. Un ebreo italiano, per loro, è la quinta colonna del sionismo.
E’ difficile che un ebreo italiano, francese o inglese non si senta anche sionista, che non provi amore per Eretz Israel, che non veda in quella terra (redenta a prescindere come per mia madre, fiumana, è sempre stata l’Istria) un rifugio in caso di pericolo. E’ un legame profondo che forse non sapremo mai capire perché non siamo mai stati perseguitati con la stessa brutalità e perseveranza millenarie. Un legame, quello con Israele, che hanno il diritto di avere e noi l’obbligo di rispettare e proteggere.
Il mio impegno di difendere questo diritto non mi impedisce di giudicare la politica di Israele in Medio Oriente né di sostenere le evidenti ragioni dei palestinesi. Sono cose diverse, su piani diversi. L’ebreo europeo è mio concittadino, il mio compagno di scuola, il mio amico fraterno, il medico che mi ha curato, un docente che mi ha educato, una donna che ho amato. L’ebraismo è parte integrante della mia cultura, è un pezzo d’Italia e di Europa che mi appartengono.
Credo che un esempio calzante di quello che voglio cercare di dire, siano il libro che sto leggendo in questi giorni e la sua autrice. “Un mondo senza noi – Due famiglie italiane nel vortice della Shoah” di Manuela Dviri (Piemme, Milano 2015). Un’ebrea ricostruisce i tasselli della sua famiglia allargata che le leggi razziali del 1938 e l’Olocausto hanno disperso, distrutto o costretto all’esilio. Padova, Ancona, Ragusa di Dalmazia, Milano, Ascoli Piceno. Da ragazza Manuela è emigrata in Israele. Ha fatto una scelta che ha pagato con la morte del figlio Ioni, morto soldato nel Sud del Libano, nel 1998. Ha creato un movimento per il ritiro israeliano dal Libano, si è candidata alla Knesset nel campo dei partiti favorevoli alla pace.
Manuela è anche profondamente italiana, italiano il suo modo di pensare, italianissima era la sua famiglia dispersa e distrutta dall’Olocausto che fu una tragedia europea prima che israeliana. Come italiani sono tutti gli ebrei italiani. Quando Luisella Ottolenghi-Mortara, la Simon Wiesenthal italiana, mise in piedi a Milano il Centro di documentazione ebraica, non preservò solo la memoria degli ebrei ma di tutti gli italiani. Dunque, non posso più accettare che degli europei siano minacciati a casa loro, in Europa che è anche casa mia, solo perché sono ebrei.
Quarant’anni fa, in un’epoca apparentemente non sospetta, chiesi a Sergio Della Pergola, che sarebbe diventato uno dei più grandi demografi al mondo, cosa lo avesse spinto a lasciare Milano per Gerusalemme. L’antisemitismo che non muore mai, mi rispose. Non l’ho mai dimenticato. Solo allora incominciai a capire che ogni ebreo che lascia la sua casa per emigrare in Israele, è una sconfitta insopportabile per l’Europa. E’ per questo che, se non ero proprio sicuro di essere Charlie, ho il dovere di sentirmi orgogliosamente ebreo.