Se mi aveste chiesto una settimana fa cosa pensavo di Charlie Hebdo, vi avrei risposto che era un giornale mediocre e presuntuoso. Salvo alcune disegnate dai maestri della satira che vi lavoravano, in generale le sue vignette non mi facevano ridere: mi irritavano. E’ ovvio che oggi sarei pronto a scendere in strada a distribuire il prossimo numero, probabilmente arrabbiato o con le lacrime agli occhi: due reazioni diverse ma in fondo simili alla brutalità dei terroristi islamisti.
Tuttavia, provando un senso di colpa, in questi giorni tragici ho continuato a pensare quanto poco mi piacesse quel giornale che spingeva la libertà di opinione fino al diritto di insultare gli altri. Mi guardavo allo specchio e cercavo nel mio sguardo i segni della decadenza occidentale. Forse incominciavo ad assomigliare a Vauro e a tutti quelli che pensano sia sempre solo colpa nostra, del colonialismo, dell’imperialismo americano, della nostra brama di petrolio.
Eppure credo che alla minaccia del terrorismo islamico destinata a durare anni, si debba rispondere anche militarmente: innalzando la nostra sicurezza con più intelligence e più armi, e incominciando a chiederci con più attenzione e profondità degli americani, quali principi di libertà noi europei possiamo sospendere per vincere questa guerra.
Un diritto fondamentale che la nostra civiltà ha conquistato è anche il mio di aver pensato – prima del 7 gennaio – che Charile Hebdo fosse un giornale arrogante: che in qualche modo, dal punto di vista culturale, presentasse delle similitudini con la brutalità di George Bush e dei suoi neocon, quando avevano preteso di imporre un sistema politico a iracheni e afghani, a dispetto della loro realtà oggettiva. Come per questi ultimi l’esportazione della democrazia nascondeva ambizioni imperialiste e petrolifere, così Charlie Hebdo celava la sua arroganza intellettuale fra e righe della libertà di espressione.
Il mio senso di colpa verso le 17 vittime del massacro di Parigi non è scomparso ma un po’ si è attenuato, leggendo sul New York Times un commento di David Brooks, intitolato “I Am Not Charlie Hebdo”. “I giornalisti di Charlie Hebdo ora sono giustamente celebrati come martiri della libertà di espressione – scrive Brooks – Ma ammettiamolo: se avessero provato a pubblicare il loro giornale satirico in un campus universitario americano negli ultimi due decenni, non sarebbero durati venti secondi. Studenti e gruppi di facoltà li avrebbero accusati di propaganda dell’odio. Le amministrazioni avrebbero tagliato i fondi e avrebbero chiuso” il giornale.
David Brooks non è un liberal smidollato come potrebbero pensare Matteo Salvini, i direttori di Libero e Giornale, Daniela Santanchè e tutti i super eroi del Nuovo Occidentalismo. E’ un giornalista e intellettuale conservatore, come ebreo ha il diritto di sentirsi più minacciato di noi dai folli dell’Islam, è perfino un sostenitore di Bibi Netanyahu.
Eppure, proprio in nome di quella libertà minacciata dai terroristi di Parigi, Brooks non si è arruolato nell’esercito della guerra all’Islam quale esso sia, né alla retorica della democrazia identitaria. Anche in un momento di emergenza e di mobilitazione ha avuto il coraggio di ammettere i limiti del nostro sistema. Credo sia questa la nostra arma più formidabile per combattere i califfati.