Tutti sapevano perché Mikhail Gorbaciov aveva deciso di andare a Cuba. Volente o meno, come tutti i capi del socialismo internazionale, anche Fidel avrebbe abbracciato perestroika e glasnost. Non c’era ragione che non lo facesse, dato che l’Unione Sovietica garantiva al suo regime un aiuto in natura, beni e denaro pari a otto miliardi di dollari l’anno.
Non si erano mai visti così tanti giornalisti all’Havana, in quell’inizio di aprile del 1989. Non succedeva dai tempi della caduta di Fulgencio Batista, nel ’59. Al bar, nella lobby e attorno all’hotel Habana Libre si potevano incontrare i più importanti anchors delle tv americane, chissà perché tutti in sahariana. Ci dissero che era stata l’ambasciata dell’Urss a Washington a sollecitare la copertura massiccia della visita di Gorbaciov, annunciando che sarebbe stata di portata storica. Anche l’abbondare di visti alla stampa internazionale sembrava l’inizio dell’imminente allineamento di Fidel.
Lo stesso era accaduto a noi corrispondenti a Mosca. Con quel viaggio storico s’inaugurava ciò che poteva in qualche modo essere chiamato il “Kremlin Press Staff” che aveva l’ambizione di diventare l’equivalente sovietico del “White House Press Staff”: quel gruppo di giornalisti accreditati alla Casa Bianca, che seguono il presidente in tutti i suoi viaggi, spesso volando direttamente sull’Air Force One, che hanno conferenze stampa e notizie solo per loro.
Di benefit noi “moscoviti” avevamo solo tanta vodka a bordo degli scomodi arei dell’Aeroflot e nessuna informazione. Non quella volta, però. Gennadi Gerasimov, il primo tentativo socialista di portavoce del presidente, ci aveva dato perfino dei dettagli su quello che sarebbe presto accaduto a Cuba.
Venendo da Mosca, l’Havana ci sembrò la realizzazione del socialismo: era ai Carabi, al posto della neve c’erano le palme e il mojito anziché la vodka. L’abbondanza dell’aiuto sovietico, a noi che venivamo da là, dava una sensazione di opulenza socialista. Su un’auto scoperta, Gorbaciov attraversò la città fra due ali di folla, accanto a un Fidel sorridente: anche il “linguaggio del corpo” dei due era una prova dell’imminente perestroikizzazione di Cuba.
Nell’ultimo giorno della visita erano previsti il colloquio politico tra i due leaders e, nel tardo pomeriggio, la conferenza stampa congiunta. A causa del fuso orario, noi giornalisti europei del “Kremlin Press Staff” chiedemmo a Gerasimov di anticiparci il risultato dei colloqui. E’ fatta, ci disse, scrivete pure che Fidel ha abbracciato la perestroika e annuncerà la ripresa delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti: una promessa che Gorbaciov aveva fatto a Reagan e poi a George Bush. Così noi scrivemmo e dettammo ai dimafonisti, sei ore più avanti di noi (allora incominciavano ad esserci i computer ma non la rete: leggevano i nostri pezzi al telefono).
Più di una conferenza stampa, fu uno show senza fine di Fidel. Lasciando Gorbaciov in silenzio, poi attonito e infine più paonazzo della voglia che aveva sul cranio pelato, el Jefe attaccò gli Stati Uniti, celebrò il dogma sovietico e sbertucciò il nuovo corso di Mikhail Serghevich. Era l’esatto contrario di ciò che Gerasimov ci aveva garantito e che noi avevamo riportato.
Era ormai quasi l’alba in Italia, non c’era più nulla che potessimo fare per far girare di nuovo le rotative. Non ci restò che tentare di affogare come Hemingway nei margarita del Floridita. Qualche ora più tardi e per le successive 24, i lettori dei nostri giornali in Italia, Francia, Germania avrebbero letto “Perestroika a Cuba”, “Mano tesa di Castro a Washington” , “Economia di mercato socialista”. Tutte balle.
Ritornai molte volte negli anni successivi. L’Havana non era più quello splendore opulento caribico. Tornato a Mosca, Gorbaciov aveva tagliato gli aiuti e i suoi successori non avrebbero più potuto permettersi tanta munificenza: tra l’altro fra Mosca e l’Havana non c’erano più similitudini ideologiche né interessi geopolitici.
La presunzione di mantenere pura la Revolucion, costò la più profonda povertà ai cubani. Non c’era benzina, né elettricità. Ogni cosa, compresi zucchero e sigari, era razionata. Il mezzo di trasporto cittadino era “el camello cubano”, l’autobus da più di 200 posti che portava i viaggiatori dal gate alla scaletta dell’aereo, messo sulle strade dell’Havana. Quella che un paio d’anni prima sembrava il diamante del socialismo, nel suo grigiore assomigliava a Tirana ai tempi di Henver Hoxha.
Furono anni difficili, poi attenuati da tentativi di riforma. Tornai ancora per raccontare quelle riforme economiche, degli stop di Fidel, delle sue insopportabili mesas redondas (tavole rotonde in diretta tv nelle quali parlava per ore solo lui) e di altre riforme di nuovo fermate da Fidel. Invecchiando, el Jefe trascinava egoisticamente nel suo decadimento una bella rivoluzione e un Paese. Pur rispettando il coraggio di una rivoluzione che aveva sfidato la potenza americana a poche miglia marittime di distanza; per quanto provi simpatia per la bellezza di una rivolta giovanile idealista prima che diventasse stalinista, non sentirò la mancanza della Cuba di Fidel. Non credo che ora il Paese tornerà ad essere quella colonia del peggior capitalismo americano che fu un tempo, come già dicono i reduci barbogia nostrani dell’immortalità del comunismo.
Penso che sotto il controllo dei militari Cuba cercherà di assomigliare a quel cosi detto “capitalismo socialista” dei cinesi. Almeno per un po’. Poi chiederanno anche loro più democrazia e la transizione dal socialismo sarà ordinata. Ho il difetto di essere sempre troppo ottimista. Qualsiasi cosa accadrà credo che l’orgoglio dei cubani non cambierà. Come i margarita del Floridita.