L’ultima è la strage talebana degli innocenti di Peshawar, che segue di poche ore l’islamista pazzo di Sidney. C’è poi la quotidianità della guerra civile siriana, la guerra all’Isis, la brutale restaurazione egiziana, l’ottusità muscolare di Netanyahu e la strisciante nuova Intifada nei Territori. E che dire del Libano che resta sull’orlo, a metà fra il baratro al confine siriano e quello al confine israeliano.
Eppure perfino in Medio Oriente c’è una buona notizia e in quanto buona notizia, non ne parla nessuno: perché una buona notizia non è una notizia buona, di quelle che si fanno leggere sui giornali o cliccare sui siti. Non dite che è colpa di noi giornalisti: voi, dall’altra parte del banco vendita dell’informazione, quanto siete interessati a leggere su carta o cliccare sul web un pezzo dedicato alla Tunisia? Vi attira di più la buona notizia o quella dove c’è sangue, paura e disperazione?
Dopo avere fatto la nuova costituzione, le elezioni parlamentari e il primo turno delle presidenziali, il 21 dicembre a Tunisi si va al ballottaggio: Moncef Marzouki contro Beji Caid Essebsi. Entrambi laici. Il primo espressione pura della rivoluzione dei ciclamini; il secondo riciclato, frutto del vecchio regime. Ma à la tunisienne: anche se Essebsi vincerà come dicono i pronostici, non sarà una brutale restaurazione egiziana alla al-Sisi. Se ci provasse, la Tunisia esploderebbe di nuovo.
Anche i Fratelli musulmani hanno dimostrato di avere un atteggiamento originale tutto tunisino: diversamente dai confratelli egiziani e dal resto dell’Islam politico della regione, hanno rinunciato a partecipare alle elezioni presidenziali. Sapevano di non vincere ma questo non toglie nulla alla solidità democratica mostrata da Rachid Gannouchi, il presidente di Ennahda, la fratellanza tunisina.
Ma l’eccezionalismo tunisino non è un dato di fatto ormai consolidato, è ancora debole e le minacce non mancano. La campagna per il ballottaggio presidenziale è stata brutale e priva di contenuti sul futuro del Paese. Era partito in quarta Essebsi, accusando Marzouki di essere “il candidato degli islamisti, dei radicali e dei salafiti”; aveva risposto Marzouki, accusando Essebsi di essere “l’uomo del vecchio regime che spinge verso la violenza e la divisione”. Non è incoraggiante.
Insieme a questo c’è sempre il pericolo che fra gli islamisti non piaccia a tutti la scelta democratica di Gannouchi: sicuramente non ai salafiti ma probabilmente nemmeno ad altri della Fratellanza che, come due anni fa gli egiziani di Mohamed Morsi, pensavano fosse venuto il momento di pendere il potere. Nella pratica della pazienza e della dissimulazione politica, gli islamisti sono maestri.
E’ dunque per essere la straordinaria eccezione positiva delle Primavere arabe, e per i pericoli ancora esistenti, che la Tunisia dovrebbe meritare tutta la nostra attenzione. Tunisi fu la prima visita all’estero di Matteo Renzi presidente del Consiglio: un modo forte per indicare la necessità di aiutare l’unico successo delle perdute Primavere. Ma occorrono appoggi politici ed economici forti per avere cura dell’unica gracile democrazia sbocciata in un tempo e in una regione di tempeste.
Allego la news analysis pubblicata sul quotidiano cartaceo, dedicata all’incontro Kerry/Netanyahu a Roma e il commento sui nostri marò in India uscito nel sito del Sole-24 Ore.
NETANYAHU CERCA A ROMA RASSICURAZIONI DAGLI USA
Tutto per colpa di una risoluzione Onu. Ed anche delle imminenti elezioni israeliane, della guerra al Califfato, dell’apparente impossibilità di una pace fra israeliani e palestinesi e, infine, del Medio Oriente con le sue tragedie tutte diverse ma alla fine connesse. E’ per tutto questo che ieri John Kerry e Benjamin Netanyahu si sono incontrati in un vertice a Roma: inaspettato e all’apparenza fallimentare.
Poche le notizie emerse. Su richiesta americana non ci sono state nemmeno le foto di rito prima del colloquio fra il segretario di Stato americano e il premier israeliano. Domenica, sempre a Roma, Kerry aveva già incontrato Sergey Lavrov, il ministro degli Esteri russo: per parlare di Medio Oriente più che di Ucraina. Di questo l’americano aveva discusso anche con Matteo Renzi, poi incontrato anche da Netanyahu prima del suo colloquio-scontro con Kerry.
Perché di questa furiosa tornata diplomatica quello che sembra predominare è la preoccupazione che il conflitto israelo-palestinese torni a essere al centro di una regione già piena di guerre e di crisi. Finito il colloquio con Netanyahu, Kerry è partito immediatamente per Parigi senza rilasciare dichiarazioni di una certa importanza.
La colpa, come detto, è di una risoluzione: quella che i giordani e i palestinesi intendono presentare questa settimana, la prossima o forse a gennaio al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Chiedono che entro la fine del 2016 (non domani, fra più di due anni), cessi l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. L’obiettivo è di dare un limite a una trattativa ora inesistente che, quando c’è, appare senza fine. La risoluzione, dice un portavoce di Netanyahu, ripetendo ciò che il premier ha ricordato a Kerry, “cerca di forzare Israele ad accettare la creazione di uno Stato palestinese unilateralmente ed entro un determinato periodo”. Da 47 anni gli Usa pongono regolarmente il veto su ogni cosa che riguardi Israele. “Non c’è ragione che cambino. E ci aspettiamo che non cambino”, concludono gli israeliani.
Più della risoluzione, è questa la vera ragione del viaggio di Netanyahu a Roma: vuole avere la certezza che gli americani non cambino perché sa che stanno vacillando. Se non lo temesse sarebbe bastata una telefonata da Gerusalemme per discuterne con Kerry. Gli Stati Uniti si sono sempre opposti ai gesti unilaterali. La risoluzione giordano-palestinese lo è, anche se concede due anni alla trattativa: più di una forzatura è un’esortazione alla ripresa del negoziato. Ma ora l’amministrazione Obama è impegnata nella guerra al califfato combattuta con un’alleanza di arabi moderati e altri attori. Non è stato facile mettere insieme sauditi, Emirati, giordani con Qatar, turchi e, in qualche modo iraniani, ognuno dei quali riteneva ci fossero altre priorità rispetto all’Isis. Un altro veto sulla Palestina potrebbe non essere gradito.
Sostenuti da inglesi e tedeschi, i francesi stanno cercando di venire in aiuto dei contendenti, soprattutto gli americani, con una seconda risoluzione più moderata. Entro due anni, propone la Francia, israeliani e palestinesi non dovranno accordarsi sulla fine dell’occupazione ma su come arrivarci: se ci dovrà essere uno Stato palestinese dentro quali confini, se Gerusalemme sarà la sua capitale, se e come i profughi palestinesi potranno tornare e altro ancora. Dare cioè due anni al negoziato del negoziato finale che porterà alla pace.
Anche la risoluzione francese alla fine stabilisce dei tempi, sia pure più diluiti. E questo non accontenta Netanyahu il quale non vuole alcuna risoluzione: forse ha deciso che essere un candidato super-falco e puntare sulla paura come ha sempre fatto, potrebbe essere l’arma della vittoria alle prossime elezioni. Perché nella vicenda delle risoluzioni Onu non c’è solo una guerra all’Isis ma anche un voto in Israele, il 17 marzo, decisivo sul futuro di Israele: se vincono i nazional-religiosi, non ci sarà una Palestina ma una legge che trasformerà il Paese in uno Stato ebraico super-etnico e illiberale; se vincono i moderati, Israele rimarrà uno Stato democratico e la pace avrà una speranza.
Ottenuto il prevedibile no di Netanyahu, a John Kerry resta un’ultima opportunità per non mettere l’amministrazione Obama di fronte alla prospettiva di porre il veto, inimicandosi gli arabi; o di non farlo, subendo l’assalto del Congresso repubblicano filo-israeliano e, forse, offrendo a Netanyahu l’arma della vittoria elettorale. Non resta che chiedere a palestinesi e francesi di congelare le risoluzioni fino al voto in Israele. Kerry ne parlerà oggi a Parigi con i francesi e poi a Londra con una delegazione araba. Non è una mossa geniale ma in Medio Oriente gli orizzonti sono opachi e limitati per tutti.
MARO’, UN FALLIMENTO BIPARTISAN
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