La Siria è un vulcano, il nemico dell’Isis è alle porte, l’esercito combatte gli islamisti nella valle della Bekaa, nel Paese vivono ormai due milioni di profughi siriani (i libanesi non arrivano a 5 milioni), più della metà non censiti dalle autorità né dalle agenzie umanitarie.
Ma l’altra domenica, sotto un sole glorioso, decine di migliaia di libanesi hanno partecipato alla maratona di Beirut. Fra i concorrenti c’era anche una delegazione di soldati italiani dell’Unifil, di stanza nel Sud, al confine con Israele. Tutto come se questa fosse la capitale normale di un normale Paese.
Tendiamo sempre a credere che il Libano sia sull’orlo del disastro, che da un momento all’altro sia fagocitato dal conflitto siriano o che, in un contesto settario così volatile, riprenda la sua guerra civile fra le 17 confessioni del Paese. Eventualità più che possibili: il Libano effettivamente è sull’orlo dell’abisso. Ma nell’attesa i libanesi sopravvivono nel miglior modo possibile. Come dire, à la libanaise.
Da sei mesi sono senza un presidente della repubblica. Poiché non c’è accordo fra le due principali fazioni (“8 Marzo” di Hezbollah più cristiani e sunniti filo-siriani, contro “14 Marzo” di sunniti e cristiani anti-siriani: i drusi stanno un po’ di qua un po’ di là), i libanesi vivono senza capo dello Stato. Scoperta anche l’impossibilità di riformare la legge elettorale e per evitare consultazioni popolari con una guerra siriana come sfondo, il Parlamento ha deciso di restare in carica per altri due anni e mezzo. Il mandato era già stato prolungato per un anno e mezzo: eletti per una legislatura, alla fine i deputati ne faranno due.
Nel 1975 i campi profughi palestinesi erano fuori dal controllo delle autorità libanesi, l’intero Sud del Paese era uno Stato nello Stato: il Fatahland. E questa fu la scintilla della guerra civile. Nel 2014 sono quelli siriani a essere un punto di destabilizzazione. I nuovi profughi facilmente manipolabili dai ribelli anti-Assad, potrebbero scatenare un secondo conflitto civile libanese.
La milizia sciita di Hezbollah combatte da due anni la sua guerra accanto al regime siriano, offrendo ai siriani della resistenza il pretesto per considerare il Libano parte del loro campo di battaglia. Di fronte alle infiltrazioni degli islamisti sunniti di Jabat Al Nusra, Hezbollah ed Esercito libanese combattono insieme, ricreando in formato minore le contraddizioni della guerra all’Isis: bombardando con gli americani le sue posizioni, i Paesi sunniti aiutano il regime siriano che vorrebbero abbattere. Qui è quasi lo stesso: i sunniti moderati e i cristiani libanesi si oppongono allo strapotere di Hezbollah ma combattono con loro, sciiti, contro gli invasori venuti dalla Siria, sunniti.
Tutto questo in nome di uno Stato Libanese on demand, ma che ogni tanto appare, mostrando il suo orgoglio. La realtà sul campo è ancora più complicata, composta anche da alleanze locali, interessi tribali e calcolo a breve; oltre alla Bekaa, anche Tripoli al Nord e Sidone al Sud sono già campi di battaglia minori della guerra siriana.
Incapace di trovare una soluzione ai problemi, il ruolo della classe dirigente libanese è di sopravvivere nel miglior modo possibile dentro quei problemi. Il modo più tradizionale è appaltandone la soluzione ai loro padrini regionali. Ogni partito libanese ne ha uno, i più decisivi sono Iran (per l’”8 Marzo”) e Arabia Saudita (per il “14 Marzo”). Teheran e Riyadh si mettono d’accordo per sostituire il governo iracheno settario di al Maliki ed ecco che a Beirut si trova il compromesso per formare l’esecutivo libanese, dopo un anno di impasse. Una soluzione positiva riguardo al nucleare iraniano potrebbe aprire la strada a un candidato condiviso per la presidenza libanese.
Così vanno le cose a Beirut, di questi tempi. Cioè da sempre. Ai più, alle persone sane di mente che non trovano niente di affascinante nel caos mediorientale, sembra una condizione d’invivibilità. Invece no. Se mettete le lenti del posto, che all’apparenza sembrano da miopi invece fanno vedere le sfumature più di un microscopio, tutto vi sembrerà diverso.
Qui a Beirut scoprirete le nuances del caos. Una stampa libera, un orgoglioso individualismo e una gioia di vivere che fanno apparire il Cairo di al-Sisi come Bucarest ai tempi di Ceausescu.
Hezbollah è un brutale contro-Stato, ha spinto il Libano nella sua guerra a Israele e ora rischia di trascinarlo in quella siriana. Eppure, diversamente dalle altre organizzazioni islamiste arabe, non vuole modificare l’anima libanese: anziché imporre la repubblica islamica, governa con cristiani e sunniti. L’assassinio politico in Libano è una tradizione come nell’Italia del Cinquecento, l’alleato di oggi domani può diventare nemico. Ma la cosa straordinaria per il Medio Oriente di oggi, è che il nemico possa diventare amico.
Il Libano è l’unico Paese democratico del mondo arabo. E’ una democrazia comunitaria: la si esercita dentro la propria setta ma ognuna ha un ruolo nel sistema. In nessun Paese arabo accade.
Ecco, è questo l’eccezionalismo libanese. “Si le Liban n’était pas mon pays”, ha scritto Khalil Gibran, “je l’aurais choisi pour patrie”. E’ comprensibile che molti di voi, mai stati a Beirut, non condividano questa riflessione. Io sì, la capisco. Perché per me Beirut è casa.
(Nela foto, l’unico monumento dedicato alla guerra civile libanese del 1975/90, al ministero della Difesa, sulla strada per Damasco)