Tre settimane fa, mentre ero a Washington, è morto Been Bradee, lo storico direttore del Post. Capisco che dedicare questo blog a un giornalista o al giornalismo sembri riduttivo, una specie d’interesse privato in atto d’ufficio. Ma coloro che lo vedono come un “post di categoria” dovrebbero riflettere sul fatto che un buon giornalista rende migliore la vita dei lettori e, più in generale, del citoyen.
Bradee, morto a 93 anni, è stato direttore del Washington Post dal 1965 al 1991, poi direttore e vicepresidente del gruppo editoriale fino al 2001. Quando arrivò, il Post era un giornale locale che a malapena usciva dal Distretto di Columbia e raggiungeva il Maryland. Lui lo trasformò nel giornale più famoso del mondo. Nei decenni precedenti il suo arrivo il quotidiano aveva vinto quattro Premi Pulitzer, 17 nei suoi 26 anni di direzione.
Il suo primo grande scoop furono i Pentagon Papers, il rapporto segreto del dipartimento alla Difesa sul coinvolgimento americano in Vietnam, pubblicato assieme al New York Times; e poi, in esclusiva, lo scandalo del Watergate che costò la presidenza a Richard Nixon. Quando i giornalisti proponevano a Bradlee un servizio o un’inchiesta, il segnale del via libera era “Si, la cosa merita una telefonata”. Nei suoi anni di direzione il Post ha moltiplicato le vendite, ha aperto uffici di corrispondenza in tutta l’America e nel resto del mondo.
Una delle ragioni del suo successo era “assumere giornalisti più intelligenti di me”. Vi sembrerà ovvio ma il numero forse ormai eccessivo di anni accumulati nei giornali, mi ha insegnato che non è così scontato.
Nei giorni in cui ero a Washington, il Post era evidentemente pieno di ricordi di Bradlee, a volte bellissimi altre retorici. Uno mi ha fatto riflettere più degli altri, forse perché scritto da un inviato di guerra come sono stato anche io. Nel 1991, quando lasciò la direzione, cioè la guida della “newsroom”, Nora Boustani che per il Post aveva seguito le guerre libanesi degli anni Ottanta, gli aveva scritto una lettera d’addio: “Ogni volta che mi trovavo da sola nelle strade di Beirut, non davo importanza ai bombardamenti, ai cecchini e agli angoli bui, ripetendomi che laggiù c’era un’eminenza raffinata che davvero apprezzava e comprendeva il vero significato del coraggio nel giornalismo…Per me sarai sempre il grande uomo coraggioso delle notizie che mi proteggeva e che mi spingeva a volere sempre un po’ di più. Grazie per aver dato a tutti noi qualcosa di così speciale in cui credere”.
Ho conosciuto Nora Boustani perché in quegli anni anche io stavo a Beirut. Aveva ragione, non c’è niente di più bello che sapere, soprattutto quando rischi, che il tuo capo è preoccupato per te perché il tuo lavoro gli piace e gli interessa. Non è facile andare oltre il tradizionale rapporto professionale e amare il proprio direttore, né lo è essere amati da lui. Ma le poche volte che accade, è come l’amore perfetto. Per il giornalista sul campo (ma credo anche per il più giovane e ultimo arrivato al desk) è come volare.
Questa fortuna l’ho avuta. Due volte. La prima con Indro Montanelli che un giorno dalla cronaca di Milano mi sbatté a Beirut. Sapevo che alla sera, nel suo studio di via Negri, non c’era niente che lo potesse distogliere dalla puntata dell’Ispettore Derrick. Ma la sua forza, l’autorevolezza, la capacità di manipolarmi perché rendessi professionalmente, mi faceva credere che “Il Vecchio” fosse lì solo ad aspettare il mio pezzo dal fronte. E senza di quello “Il Gornale” non sarebbe uscito. La settimana scorsa alla Libreria Hoepli di Milano ho partecipato alla presentazione della biografia che Sandro Gerbi e Raffaele Liucci gli hanno dedicato (“Indro Montanelli. Una biografia”, Hoepli, 2014), e per me è stato come tornare al quei giorni.
Il mio secondo Ben Bradlee è stato il giornalista che mi convinse a lasciare il Giornale e passare al Sole: Gianni Locatelli, il direttore che ha inventato il grande quotidiano che oggi sfogliate, trasformandolo da poco più di un ciclostilato di Confindustria nel giornale autorevole dell’economia italiana, per quanto nel nostro Paese sia possibile riuscirci.
Per i redattori del Post, Bradlee era “Tiger”. Anche noi al Sole chiamavamo Locatelli “il Tigre”. Forse non è casuale, forse è così che i giornalisti chiamano i direttori che sanno diventare i loro capitani.