Così ci prova anche il papa. Detto in questo modo, cioè come la stampa lo ha riportato, Francesco avrebbe deciso di addentrarsi nella secolare palude del processo di pace fra israeliani e palestinesi, invitandoli a Roma per l’8 di giugno. Già temo qualche titolo di giornale: “Da Oslo al Vaticano”. O “La Santa Pace”. Nonostante la mia mediocre applicazione da cristiano, prego fervidamente di non dover leggere “Roma Caput Pacis”.
Nemmeno questo miracoloso papa ha l’ambizione di avviare una trattativa diplomatica nella quale si sono persi sei presidenti degli Stati Uniti da Jimmy Carter in poi; di trovare la soluzione del più complesso dei negoziati fra due leadership e due popoli che continuano a pensare a una sola via d’uscita: tu perdi e io vinco. Francesco è stato chiaro nel ricordare che sarà solo un incontro di preghiera e di riflessione. Ma la suggestione, e dunque la tentazione di pensare a un’opportunità di pace, sono forti. C’è un po’ d’ignoranza sulla questione e tanta onesta speranza fra molti.
Supponiamo quindi che davvero l’obiettivo papale sia di rimettere in moto quel negoziato sul quale John Kerry sta coraggiosamente bruciando il suo lascito da segretario di Stato. Ignorato in questo da Barack Obama volutamente attento a essere il meno possibile ricordato come “l’ennesimo presidente che non è riuscito a concludere nulla”.
Per cominciare papa Francesco ha scelto due cavalli sbagliati o quantomeno deboli. Alle soglie dei 91 anni Shimon Peres sta per lasciare la presidenza d’Israele dove sarà sostituito da Reuven Rivlin, destra Likud, contrario all’esistenza di uno Stato palestinese. Peres è il politico che tutto il mondo tranne gli israeliani vorrebbe vedere alla guida di Israele. E’ stato tre volte premier, tre ministro degli Esteri e due della Difesa ma non ha mai vinto un’elezione. E’ stato uno dei creatori delle colonie nei territori occupati per diventare poi come Paolo sulla via di Damasco, un convinto sostenitore della pace. Una notevole parte d’israeliani lo considera per questo un traditore.
Mahmud Abbas, nom de guerre Abu Mazen, alla soglia degli 80 anni, è il presidente dei palestinesi, erede di Yasser Arafat. Diversamente da Israele, nell’Autorità Palestinese la presidenza è la carica esecutiva ma Abu Mazen ha poco spazio di manovra per imporre ai suoi i sacrifici necessari per arrivare alla pace. Ci sono gli islamisti di Hamas. Ma anche nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e nel più importante dei suoi partiti, Fatah – dei quali Abbas è presidente come dell’Autorità palestinese – ci sono divisioni profonde. Insomma il vecchio Abu Mazen è un leader debole, perfino incapace di designare il suo successore come Arafat fece con lui.
Peres ha la gravitas ma non il potere per raggiungere qualsiasi compromesso e Mahmud Abbas ha il potere ma non l’autorevolezza. In Vaticano, dunque, non resta che pregare e affidarsi a Dio più che agli uomini.
Ma anche qui sorge un problema: la religione. Incontrarsi per pregare insieme non fa mai male ma è proprio la fede – meglio, le fedi – la causa principale del perdurare della crisi fra israeliani e palestinesi. Sono tre in uno i conflitti fra due popoli: c’è quello fra due risorgimenti nazionali, Stato d’Israele contro Stato palestinese; fra due etnie, ebrei e musulmani; e quello fra la religione ebraica e la musulmana. Per questo è uno scontro così apparentemente irrisolvibile.
Il conflitto era nato come laico: cioè nazionale ed etnico. Ma, soprattutto in questi ultimi vent’anni, è diventato sempre più religioso e gli estremismi nei due campi si sono moltiplicati, radicalizzando lo scontro.
E’ più facile trovare rabbini e dottori della legge islamica che parlano contro e non a favore della pace. E quando lo fanno sono brutali, violenti e razzisti. Il miracolo che papa Francesco dovrebbe tentare di fare è di escludere la religione dal conflitto fra israeliani e palestinesi. Meno se ne parla, più c’è speranza.