Il mestiere del giornalista è esaltante ma ingannevole. Quando vivevo a Mosca ai tempi di Gorbaciov mi illusi che la Russia sarebbe diventata un Paese normale. Poi arrivò Putin. A Oslo, Washington e Gerusalemme ho creduto di essere testimone della Grande Pace fra israeliani e palestinesi. Sapete come è finita. Anzi, non è finita affatto.
Mi sembra di rivivere lo stesso inganno tornando ora al Cairo dopo piazza Tahrir, varie elezioni, la vittoria alle urne di Mohamed Morsi, la sua caduta, la violenta repressione dei Fratelli Musulmani e il ritorno al potere di chi c’era prima di tutto questo: alcuni nomi sono diversi ma menti e cuori restano tutti molto simili. Si vota per il nuovo presidente, cioè Abdel Fattah al Sisi, ed è difficile chiamare trasparenti queste elezioni.
In senso tecnico lo saranno e l’ex generale Sisi oggi gode effettivamente della maggioranza del consenso popolare. Ma tutto è già stato preparato perché non ci fossero sorprese. I principali oppositori fuori legge, la stampa imbrigliata. Un solo contendente in un Paese di 80 milioni di persone è semplicemente ridicolo.
E’ così, dunque, che sono finite le repubbliche arabe? Le elezioni non sono solo in Egitto, infatti, e non ci sono solo elezioni per affermare il ritorno dei militari al centro della scena del mondo arabo. Palesemente o dietro le quinte, generali e colonnelli governavano prima delle Primavere e sempre più evidentemente governano oggi, tre anni dopo.
Si è già votato in Algeria e Abdelaziz Bouteflika, ai limiti dell’incapacità d’intendere e di volere, è stato rieletto per la quarta volta. Dietro la sua maschera comanda l’apparato militar-energetico al governo dall’indipendenza.
Lunedì e martedì si vota in Egitto per riportare al potere un militare come Nasser, come Sadat, come Mubarak. Sarà più o meno moderno di loro, più o meno onesto, più o meno riformatore. Ma Sisi è come loro: viene dalle stesse scuole, la stessa cultura, dalla medesima semplificazione militaresca delle complessità politiche, sociali ed economiche di un grande Paese come l’Egitto.
E che dire delle imminenti presidenziali in Siria? Bashar Assad, portavoce di un regime di militari, avanza come un carro armato, fingendo che attorno a lui sia tutto normale. Le elezioni in Siria erano una farsa prima: immaginatevi adesso, in mezzo alla guerra civile e nove milioni di elettori fuggiti nei campi profughi all’estero o altrove nel Paese.
C’è un’altra sofferta elezione presidenziale, in Libano. Ma è una storia diversa: originale, tribale e al tempo stesso democratica. Qui i militari non c’entrano a dispetto del fatto che il Paese ne sia pieno. Ma il mio amato Libano merita un post a parte che scriverò nei prossimi giorni.
E’ invece simile a quella algerina, egiziana e siriana, la vicenda libica: anche se non si tratta di urne ma di cannonate. Probabilmente il generale Khalifa Haftar sta salvando il suo Paese, combattendo le milizie islamiche. Ma non ci sono certezze su cosa accadrebbe a Tripoli il giorno in cui vincesse la sua partita militare.
Forse anche Sisi ha salvato la laicità dello Stato egiziano, facendo un golpe contro i Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi. Solo il tempo dirà se all’Islam politico sia stata negata l’occasione di diventare uno strumento della democratizzazione o dell’oscurantismo. Certo la dimensione religiosa emersa dalle brecce delle prime libertà, è stata quasi ovunque un handicap al procedere democratico delle Primavere arabe: posto che in così poco tempo la democrazia potesse fiorire in questa regione. Per colpa delle fratellanze o del militarismo, è quell’idea di democrazia intravista tre anni fa che alla fine ha pagato.
Marwan Muasher, ex premier e ministro degli Esteri giordano, e ora analista al Carnegie di Washington, definisce tre modelli arabi emersi da questi primi anni turbolenti: quello “inclusivo e dagli ampi orizzonti il cui obiettivo è costruire consenso; l’approccio del vincitore-prende-tutto che esclude ampi segmenti della popolazione; l’approccio non-mi-fermo-davanti-a-niente, finalizzato alla sopravvivenza del regime”. Cioè Bashar di Siria.
Il primo e virtuoso esempio è la Tunisia: in parte anche il Marocco e lo Yemen. Al secondo modello appartiene l’Egitto nel quale le forze in campo rifiutano il dialogo tra loro: il vincitore piglia tutto. Ora è Sisi che nega un ruolo a Fratelli musulmani e sinistra laica dei giovani del 6 Aprile, il movimento di piazza Tahrir. Ma prima erano stati gli islamisti a pretendere di governare in esclusiva. E di questa vocazione egiziana all’intolleranza sono stati vittime anche i giovani di Tahrir: presuntuosamente convinti di essere gli unici custodi della verità, prima di essere spazzati via.