di Ugo Tramballi
“Il più grande contributo del popolo ebraico alla Storia è l’insoddisfazione: poco utile in politica ma ottima per la scienza”, ha detto una volta Shimon Peres. E’ la riflessione che dovrebbe essere scritta sotto il cartello stradale che annuncia l’ingresso a Tel Aviv. Perché non esiste quartiere, regione o città ebraica, da Eastern Parkway, Brooklin, all’oblast di Birobijan sulla Transiberiana (posto non siano tutti emigrati ad Ashdod) che sia il simbolo dell’insoddisfazione ebraica quanto la Collina della Primavera e la sua area metropolitana.
E’ questo che significa in ebraico Tel Aviv, città appena centenaria in una terra d’imprese umane e divine troppo millenarie per offrire relax. Tel Aviv è una città ancor meno riposante ma non per le stesse ragioni del resto d’Israele: il conflitto, la fede, il nazionalismo. In linea d’aria, i primi villaggi palestinesi e le colonie ebraiche sono a una ventina di chilometri. Ma la sensazione è che si tratti di uno scontro in corso nell’emisfero australe.
La frenesia di Tel Aviv è probabilmente il frutto dell’insoddisfazione di essere così vicina al conflitto. Meglio: che sia il conflitto ad esserle così fisicamente e fastidiosamente prossimo. La cosa è quasi vissuta come un’ingiustizia. Dieci anni fa, prima che alcuni devastanti attentati la riportassero alla sua geopolitica, per mesi la città aveva ignorato l’esistenza di una seconda Intifada: lo scoprì solo quando vennero assassinati i due proprietari gay di un noto sushi bar, andati in Cisgiordania in cerca di stoviglie etniche per il loro locale. Perché in quei 20 chilometri di pianura e colline c’è un incolmabile oceano culturale.
“Un’attitudine che viene dal fatto di essere un minuscolo Paese in stato di guerra – con una popolazione pari ad appena un millesimo di quella planetaria – rende gli israeliani scettici di fronte alle spiegazioni convenzionali su ciò che è o non è possibile”, scrivono Dan Senor e Saul Singer in un libro appena tradotto da Mondadori (“Laboratorio Israele. Storia del miracolo economico israeliano”, Mondadori, Milano 2012, pagg.287, euro 20). L’obiettivo di Senor, studioso della lobby americana, e Singer del “Jerusalem Post”, sarebbe di spiegare le ragioni del successo tecnologico israeliano: 63 imprese quotate al Nasdaq nel 2009, seconde per numero solo alle americane; 2 miliardi di dollari in venture capital, quanto Germania e Francia dove vivono 145 milioni di persone; la più alta concentrazione di startup al mondo: una ogni 1844 israeliani. Ma quello che viene fuori è una storia sociale del miracolo economico israeliano. Di più, una storia culturale e dell’immigrazione, essendo stato il milione di nuovi venuti dall’ex Unione Sovietica (“uno su tre era scienziato, ingegnere o tecnico”) fondamentale per lo sviluppo tecnologico di questo ventennio. In un certo senso, anche una storia del pensiero militare.
Tornando alla riflessione di Shimon Peres sull’insoddisfazione che serve poco alla politica e molto alla scienza, cosa c’entra Tel Aviv? E’ la città senza la quale non sarebbe accaduto nulla: cento anni fa era nata per essere l’incubatore del “nuovo ebreo” e lo è diventata. Orgoglioso, fantasioso, diverso dal colono delle colline, dall’ideologo delle frontiere e dal timorato di Dio di Bnei Brak, proditoria enclave ultraortodossa nella piana soleggiata di Tel Aviv. Senza la sua infinita insaziabilità non ci sarebbe l’humus che crea le idee. La storia della Silicon Valley israeliana in realtà nasce nel 1980 ad Haifa “quando il team Intel inventò il chip 8088 con transistor in grado di aprire e chiudere il segnale quasi cinque milioni di volte al secondo ma abbastanza piccoli da permettere la fabbricazione di computer da ufficio o da casa”. Ma è lo stesso. Perché in maniera più discreta, quasi intimistica, Haifa è come Tel Aviv, forse di più: è la città più pacifista e tollerante di Israele.
Tel Aviv è molto democratica, è qui che l’anno scorso sono nati i primi moti sociali: come in California governatori repubblicani e democratici non sono molto diversi, anche i sindaci del Likud sembrano laburisti. Ma è una città di ricchi, dove i ricchi ostentano il loro stato. A Gerusalemme non accadrebbe mai. Ristoranti costosi che restano di moda per non più di sei mesi, gallerie d’arte, librerie, grattacieli e appartamenti penthouse che salgono nel cielo blu, guardando il Mediterraneo. Ma “dove può capitare che un taxista comandi un milionario o che un ragazzo di 23 anni guidi l’addestramento dello zio, la gerarchia risulta necessariamente attenuata. Il sistema della riserva militare contribuisce a rafforzare lo stile di vita caotico e antigerarchico che si può riscontrare nelle sale operative dell’esercito così come nelle aule scolastiche o nelle sale riunioni delle aziende”. Un esercito e una società di molti tenenti e pochi colonnelli.
Sarebbe troppo facile distinguere Tel Aviv come una Atene, diversa dal resto di Israele sempre più Sparta. Ingolfato nel conflitto dal quale non vuole più districarsi, il Paese si allontana dalla definizione di Amos Oz: “Una cultura del dubbio e della discussione, un gioco perennemente aperto di interpretazioni, contro interpretazioni, reinterpretazioni, interpretazioni opposte”. E Tel Aviv ne subisce i cambiamenti. Ma sostanzialmente è ancora la stessa. Per quanto irrilevante, continua ad avere il più alto numero di renitenti ideologici alla leva. E continua a rifiutare l’idea di trasformarsi in un campo di battaglia. Nel 2003 all’inizio della guerra in Iraq, in attesa dei razzi di Saddam le autorità avevano distribuito maschere antigas. C’era aria di mobilitazione. Diligentemente, mi presentai al ristorante Manta Ray con la maschera in spalla. Fra gli applausi degli altri avventori, il proprietario mi offrì da bere perché ero l’unico a portarla. La città non è cambiata. Continuerà ad affrontare con ironia la consapevolezza di essere il ground zero anche dei missili iraniani, in caso di nuovo conflitto. Lo scrittore yiddish americano Leo Rosten chiamava tutto questo con una parola: chutzpah, “impudenza inammissibile, sfrontatezza oltre ogni limite”. A Tel Aviv usano un termine più semplice: rosh gadol, testa grossa. Lo usano i soldati e gli uomini d’affari per indicare chi ha iniziativa e non crede nei manuali.