Non si può definire proprio inaspettata la notizia della vittoria degli islamici di Ennahda in Tunisia. E non è difficile prevedere che fra un mese in Egitto i Fratelli musulmani vinceranno allo stesso modo, forse di più. Anche nelle Primavere arabe la fede è il richiamo elettorale di maggior successo. La questione importante è capire per quale Islam la gente finalmente liberata abbia votato e continuerà a votare.
Quando Mustafa Jalil, il segretario del Consiglio Nazionale dice che la Libia rispetterà i fondamenti della Sharia e “ogni norma che contraddica i principi dell’Islam non avrà valore”, afferma qualcosa di preoccupante per i laici ma di tecnicamente ineccepibile. Esiste una sola legge italiana o francese che confuti i principi cristiani? Barack Obama proporrebbe al Campidoglio qualcosa in contrasto con la Bibbia sulla quale giurano tutti i presidenti degli Stati Uniti? Israele non si è data una Costituzione per non entrare in conflitto con i partiti religiosi: i quali dal 1948 hanno fatto parte di ogni governo determinandone la maggioranza parlamentare necessaria.
Fino a che i giuristi della nuova Libia non scenderanno nei dettagli, dunque, il timore di qualsiasi vittoria e qualsiasi cosa dica un musulmano in politica, è una forma sottile di islamofobia. Leggendo i giornali, ascoltando i servizi televisivi e radiofonici sulle elezioni tunisine, è capitato raramente di trovare l’aggettivo “moderati”. Come se gli islamici fossero una sola cosa e per definizione non moderata.
Questo non vuol dire che, superato il processo democratico di transizione, Ennadha non sveli un volto radicale; che la Libia non incominci a perseguitare chi non è d’accordo e che dopo tanto manifestare da piazza Tahrir alla fine non emerga una repubblica islamica egiziana. Quando i salafiti fanno uso della violenza in nome della fede, raramente i partiti moderati ne prendono le distanze e li isolano. Al Cairo si parla di alleanza o collaborazione elettorale tra Fratellanza e salafiti. C’è nell’Islam politico un problema non risolto legato all’immobilismo della dottrina della fede.
Ma tutto questo è parte del rischio di ogni processo politico dalla stagnazione al futuro che non è mai certo: in Tunisia, in Libia, in Egitto, in Siria e ovunque le rivolte inizieranno. Il problema è che non c’erano alternative a questa dinamica, alla rimessa in moto di società congelate da regimi che la gente non voleva più. Non siamo noi a stabilire se Ben Ali, Mubarak e Gheddafi fossero o meno leaders utili. Lo hanno deciso i loro sudditi diventati cittadini e da questa realtà non possiamo prescindere. Al World Economic Forum mediorientale in Giordania, Mahmud Jibril, il presidente del Consiglio libico, raccontava che nei mesi dell’incertezza molti in Occidente lo invitavano a trovare un compromesso con Gheddafi. “Sono stati i giovani, i combattenti, a spingerci a continuare fino alla vittoria”.
Non è necessario convincerci che bisogna essere ottimisti ad ogni costo ma dobbiamo guardare le cose per quello che sono. Sempre al World Economic Forum giordano lo ha fatto John McCain: il senatore repubblicano dell’Arizona, non un pericoloso relativista. “Dobbiamo giudicare ogni governo eletto dalle sue azioni, non dalle nostre preoccupazioni”, ha spiegato il candidato che aveva conteso la presidenza a Barack Obama. “Gli islamici possono avere un ruolo importante e noi li incoraggiamo ad averlo”.