Intanto in Israele….(Parte prima)

LiebermanAri Shavit, firma di Ha’aretz, elencava un paio di giorni fa le ricorrenze storiche che attendono Israele nel 2017. Il 120° anniversario del primo congresso sionista a Basilea; il centesimo della Dichiarazione Balfour, quando il ministro degli Esteri britannico promise al barone Rothschild la nascita di un “focolare ebraico” in Palestina; il settantesimo della risoluzione Onu che approvava la nascita di uno stato ebraico; il cinquantesimo della Guerra dei sei giorni.

L’ultima non è tanto una ricorrenza storica quanto l’inizio di una malattia degenerativa per il tessuto e il futuro d’Israele: la Guerra dei sei giorni o, per meglio dire, l’inizio dell’occupazione dei territori palestinesi. Le cellule impazzite che la conquista di Cisgiordania e Gaza nascondeva, erano state individuate molto prima da alcuni degli israeliani migliori. Ma fu inutile.

Oggi la malattia si sta avvicinando a grandi passi alla metastasi con l’ingresso nel governo d’Israele di Avigdor Lieberman, già buttafuori moldavo prima di emigrare in Eretz Israel; già ministro degli Esteri israeliano che ha fatto più visite nelle satrapie asiatiche ex sovietiche di quanto non ne abbia fatte in Europa e Usa. Residenza ufficiale in una colonia; un solo vero modello politico da imitare: Vladimir Putin.

Nell’ultima guerra con Hamas, Lieberman voleva radere al suolo Gaza, nella trattativa sul nucleare iraniano voleva bombardare la Persia: nel precedente governo al quale aveva partecipato aveva anche proposto di colpire l’Arabia Saudita. E’ favorevole all’introduzione della pena di morte per i terroristi (ma solo se palestinesi, gli estremisti israeliani che bruciano vivi i bambini palestinesi no) e non trova nulla in contrario nel costruire nuovi insediamenti. Un turbo-Trump, insomma. Aveva un solo pregio: essere laicamente contrario alla presenza asfissiante del rabbinato e degli haredim ultra ortodossi nelle scelte dello stato e nella vita degli israeliani. Vi ha rinunciato per essere ammesso nell’esecutivo.

Con il suo partito etnico russo Yisrael Beiteinu, Lieberman non è entrato silenziosamente in un governo di intellettuali e di statisti coraggiosi, impegnati a trovare la miracolosa formula che dia la pace con gli arabi e contemporaneamente la sicurezza d’Israele. No, entra trionfalmente in una gabbia di suoi simili, forsennati nazional-religiosi, guerrafondai e razzisti, convinti che il futuro della tribù d’Israele sia di nuovo in un ghetto, sia pure armato di testate nucleari. E che attorno ci siano solo antisemiti.

“I rapporti la descrivono come la coalizione più a destra della storia d’Israele e sappiamo anche che molti dei suoi ministri dicono di opporsi alla soluzione dei due stati. Questo solleva legittime domande sulla direzione che” la coalizione “potrebbe prendere”, diceva con la solita estrema cautela un portavoce del dipartimento di Stato a Washington.

Disastro nella tragedia, Lieberman è diventato ministro della Difesa, titolare del dicastero più sensibile in Israele. Dalla fondazione dello stato, 10 dei 17 politici che hanno occupato la carica erano ex militari. Altrove non è un buon segno, in Israele i generali sono quasi sempre la parte più pragmatica e razionale della società israeliana, soprattutto di fronte alle minacce. La cosa più vicina alla sicurezza nazionale alla quale è mai arrivato il nuovo ministro è stato buttare gli ubriachi fuori dai locali di Kishiniov. Otre che da ministro degli Esteri e politico israeliano di bombardare a destra e sinistra.

Era stato il vice capo di stato maggiore Yair Golan ad aprire lo scontro il giorno della memoria dell’Olocausto. Nel suo discorso aveva coraggiosamente denunciato i segni nel sistema israeliano di quell’intolleranza che portò la Germania al nazismo. A parte l’evanescente opposizione laburista, da tempo le forze armate sono l’unico argine all’estremismo politico. La cacciata del ministro Moshe Ya’alon, anche lui durissimo verso la deriva del governo, e la chiamata di Lieberman, non sono che la prima cannonata dell’offensiva di Bibi Netanyahu e del suo esecutivo sempre più reazionario, della battaglia per la normalizzazione delle forze armate. Se e quando questo accadrà, Israele non avrà più speranza. Sarà un altro stato fondamentalista del Medio Oriente.

  • Andrea Citone |

    Venditore di fumo non buono, ma ottimo.

  • Fabio Greco |

    Ormai è follia populista, tifo da stadio, Gentile Damascelli. L’analisi di Tamballi è lucida: da unica democrazia del Medio Oriente Israele sta per trasformarsi nel suo opposto e assomigliare sempre più alle satrapie asiatiche.

  • Giuseppe Damascelli |

    Leggo con sconforto i 2 precedenti commenti: anziché approvare qualsiasi iniziativa del suo sciagurato governo, chi ama Israele dovrebbe informarsi (per esempio leggendo Haaretz). Saprebbe che gli ex-capi dei Servizi segreti e dell’Esercito hanno messo in guardia dalla china del governo Netanyahu e dal crescente prevalere delle sue componenti più antidemocratiche; saprebbe cosa ha detto Yair Golan nel discorso per il Giorno dell’Olocausto. Tramballi conosce e ama Israele da decenni; e non ha fatto che riferire una parte delle critiche e delle preoccupazioni che vengono dall’interno del Paese….
    Beppe

  • gamgam |

    Invito tramballi a cancellare il mio indirizzo dalla sua lista.
    Per un’informazione piu’ obiettiva , dora in poi leggero’ ‘ solo i
    bollettini di hamas. Sono più moderati dei commenti di tramballi

  • tim |

    Tramballi, ma e’ sicuro di quello che dice ?
    Lei ha le idee molto confuse.

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