Day of Days

Iron-Mike-Memorial
E’ un altro anniversario dello sbarco in Normandia: il settantunesimo, non il più importante. Probabilmente fino al centesimo non sarà più importante e anche quello lo sarà poco perché il tempo passa e diluisce la Storia. Ma per me – e non so esattamente dirvi perché – quel giorno rimane un momento essenziale. Credo che la nostra libertà di oggi sia nata sulle spiagge della Normandia.

Aiutato da Hollywood, il 6 giugno è un giorno epico. In realtà la Battaglia di Normandia durò fino al 24 luglio, quando Caen fu liberata. E ci fu un altro mese di combattimenti per arrivare a Parigi. Solo nella Battaglia di Normandia ci furono 120mila morti per parte. Almeno 240mila caduti militari più migliaia di civili è un bilancio da vecchi massacri della Prima guerra mondiale.

Anche Stalingrado è un momento eroico e un punto di svolta per la sconfitta del nazifascismo. Ma prima di essere attaccato da Hitler, con lui Stalin si era spartito la Polonia, le Repubbliche Baltiche e la Bessarabia. E per i popoli dell’Est europeo la liberazione sovietica fu principalmente un’altra occupazione durata fino al 1989. Per questo sono riconoscente agli americani: continuo ad esserlo nonostante nel dopoguerra avessero imposto la loro tutela sulla democrazia italiana, nonostante George Bush II, nonostante alcuni gravi errori comportamentali con la Russia, nonostante i limiti del loro sistema in patria. Tutto sommato, sono felice di essere loro alleato.

Per questo, in segno di rispetto per i ragazzi che morirono per la mia libertà, pubblico qui sotto il reportage che per il Sole-24 Ore feci nel 2004, per il sessantesimo dello sbarco. Spazi così ampi dedicati a tematiche di questo genere, non ne troverete più sui giornali italiani.

Una piccola nota a margine. Il bambino che chiede e il padre che gli risponde, in realtà siamo mio figlio Francesco ed io. Due anni prima di tornarvi per il reportage, avevo portato in Normandia i miei figli, Davide e Francesco, avevano 12 e 6 anni. Arbitrariamente, avevo attualizzato l’episodio di Arromanches nel mio reportage. Ma Francesco mi fece quelle domande e io in quel modo gli risposi.

 
DAL NOSTRO INVIATO

ARROMANCHES <Papà, è morto quel soldato?>, chiede il bambino. Non occorre risposta: sullo schermo a 360 gradi che dà ai visitatori la sensazione di essere in mezzo alla battaglia – niente parole, solo i suoni assordanti della guerra – quella è l’unica immagine che viene ripetuta al rallentatore. Il ranger con uno zaino da 45 chili sulle spalle è appena uscito dall’acqua, corre sul bagnasciuga di Omaha Beach. Tre o quattro passi. Poi la gamba destra si piega, il soldato cade faccia al cielo e non si muove più. Solo su quella spiaggia 2.200 americani sarebbero morti così, la mattina del 6 giugno 1944.
<Perché è morto?>, chiede ancora il bambino. La risposta è di quelle che non farebbero piacere a Don Rumsfeld, il segretario alla Difesa che l’anno scorso aveva collocato i francesi in una “vecchia Europa” smidollata e irriconoscente, rispetto a una ipotetica “nuova”, più gagliarda. <É morto per la nostra libertà>, risponde il padre.

Se oggi la Francia detesta l’America, certo non la detesta in Normandia pavesata in ogni villaggio di bandiere a stelle e strisce. Tutto è pronto per la grande festa del 6 giugno, sessantesimo del D-Day. Nello spiazzo accanto alla sala circolare dove nove schermi proiettano il film una ventina di volte al giorno, i soldati dell’Armée francese stanno finendo di costruire le tribune: la cerimonia con tutti i capi di Stato si svolgerà qui, ad Arromanches. Il villaggio sulla Manica è al centro del grande campo di battaglia del 6 giugno: a Ovest il settore americano, Omaha, Pointe du Hoc, Utah, St. Mère-Eglise e Caretan; a Est quello anglo-canadese, le spiagge di Gold, Juno, Sword, la città di Bayeux, Ouistreham e Pegasus Bridge.
Per la prima volta negli anniversari del D-Day, sulla tribuna qui accanto ci sarà un cancelliere tedesco. Sarebbe un dettaglio pieno di significati, il segno anche formale di un saldo definitivo di tutti i conti con il passato, se oggi la cronaca non inquinasse pesantemente la storia. La presenza di Schroder accanto a George Bush verrà letta attraverso il prisma irakeno, l’ombra del conflitto di oggi peserà sulla memoria di un giorno che 60 anni fa cambiò la vita di tutti. <L’inizio della fine>, la fine del potere nazista in Europa, è la frase storica di Winston Churchill che definì quella grande battaglia. Ma oggi la maggioranza degli europei ricorda di più un’altra frase, detta poco più di un anno fa al Consiglio di sicurezza dell’Onu dal francese Dominique De Villepin: <Il mondo sarà più sicuro dopo un intervento militare in Irak? No, non lo sarà>.
Forse la ricorrenza del 6 giugno serve proprio a questo, a garantire un equilibrio fra la memoria e l’attualità. Quel giorno fu l’inizio della fine del nazismo ma anche l’inizio, la data fondante delle nostre democrazie e dell’impero americano: le une e l’altro sono strettamente legate. Molte cose sono accadute da allora: il Vietnam, il Medio Oriente, la Guerra fredda. Nel 1965 Charles de Gaulle chiamava l’America <la più grande minaccia alla pace mondiale>. Ma anche se il tempo ha stratificato altri avvenimenti e altre guerre, quel che siamo oggi dipende in gran parte da ciò che accadde 60 anni fa: senza la Normandia e senza gli americani il vincitore della guerra sarebbe stato Hitler o Stalin.
Proprio per questo inconfutabile dato storico il problema della maggioranza degli europei non sembra tanto l’America quanto l’unilateralismo di George Bush. Dopo la vittoria di Zapatero in Spagna, Dominique Moisi dell’istituto francese di relazioni internazionali, è arrivato a sostenere che <ora che la “vecchia Europa” è più forte, il ritorno di una “vecchia America liberale” con la sconfitta di Bush alle presidenziali non danneggerebbe le relazioni transatlantiche. Non porterebbe a un cambio radicale nella diplomazia americana ma a un diverso stile. La vittoria di valori sociali e culturali più vicini a quelli europei potrebbe almeno rallentare il processo di disaffezione fra i due alleati>.
All’ingresso di Colleville-sur-Mer, a pochi passi da Omaha Beach, c’è uno striscione da Tour de France. Lo ha fatto mettere l’amministrazione comunale. <I lunghi singhiozzi dei violini d’autunno – dice – mi feriscono il cuore di monotono languore>. La Chanson d’automne di Verlaine era l’annuncio in codice dell’invasione, che la Bbc diede alla Resistenza francese. Migliaia di normanni morirono in quei giorni. I villaggi dove oggi si vende Calvados ai turisti, con i campanili di pietra scura illuminati dal sole, 60 anni fa erano macerie. Per spezzare la tenacia tedesca l’artiglieria inglese di Montgomery rase al suolo Caen. Ma anche oggi, che la contingenza politica potrebbe provocare qualche scomodo paragone irakeno, per i francesi quel pesante tributo di allora continua a essere solo un necessario “prezzo per la libertà”.
Lo stesso pagato dai 9387 soldati che riposano nel cimitero americano sopra la spiaggia di Omaha, dalla quale sale un vento impetuoso e carico di salsedine. É il più grande dei 22 cimiteri alleati in Normandia: altri 5 sono di caduti tedeschi. Fra pini neri d’Austria, cipressi, lecci, allori, frassini e rose polyantha Joseph Petriello, New Jersey, fante della 90¬ divisione, riposa accanto a James Ryan jr., Pennsylvania, della 101¬ aviotrasportata, a Morton Marshack di New York, a John Soblesky del Michigan, Anton Tomshik del Minnesota, a Sam Criscuolo, Chester Puchalsky, Vincent Yeker, Andrey Hromiko, Jerome Shapiro, Sam Marzulla, Roberto Munoz, David Abraham, Rito Arellano. Altre croci indicano solo che <qui riposa in onorata gloria un compagno d’armi conosciuto solo da Dio>. É il miscuglio di razze e di fedi che ha fatto la forza dell’America in pace e in guerra. In Europa l’eliminazione fisica degli ebrei, la soluzione finale, aveva assunto ritmi industriali; in Normandia sbarcava un esercito multietnico che occupava per liberare. Nel silenzio di Omaha Beach, le lunghe file di croci bianche sono intervallate da stelle di David.
<Abbiamo bisogno degli Stati Uniti, abbiamo bisogno della loro leadership morale>, ricorda Joschka Fisher. Ma quale America vogliamo che ci guidi in questa epoca confusa? E quale Europa vorrebbero avere oggi gli americani al loro fianco? Incontrando i giovani partecipanti a una conferenza in Germania, Henry Kissinger li descrive come <una nuova generazione che sta cercando di trovare la propria identità. Non è appesantita dalla guerra né ossessionata dalla crescita economica: ciò significa che non sono automaticamente filo-americani>.
Per quante bandiere sventoleranno in questo anniversario, per quanta riconoscenza verrà espressa nei discorsi ufficiali e nel sentimento comune della gente, non è più il 6 giugno 1944 che definisce i rapporti transatlantici di oggi. Non c’è battaglia, eroismi, riconoscenza e dunque alleanze che restino immutate nei decenni. E non è solo un problema geo-strategico.
<Queste crescenti divisioni: su guerra, pace, religione, sentimenti, vita e morte>, sospira lo scrittore tedesco Peter Schneider. Tutto questo ci divide impercettibilmente giorno per giorno più di quanto non continuino a unirci gli avvenimenti del ’44, sempre più distanti un giorno dopo l’altro.
Fino a qualche tempo fa nessun europeo discuteva della superiorità della democrazia americana. Era un fatto. Oggi un numero crescente di europei è convinto di vivere in una società continentale più aperta di quella americana. La pena di morte non è un tema di discussione nel Vecchio continente e l’aborto ha uno scarso peso nelle sue campagne elettorali; in America abrogare la prima e affermare la libertà d’aborto non è politicamente corretto. La nuova Costituzione europea rinuncia ad affermare le radici cristiane del continente; negli Usa generali e governatori chiudono i loro discorsi invocando la benedizione divina, ed entrare o uscire dalla Messa non è più una questione privata fra il Presidente e Dio ma un avvenimento mediatico domenicale.
Se tuttavia volete ancora trovare un angolo europeo di amore illimitato per l’America, venite a Sainte Mère-Eglise, una decina di chilometri all’interno dalla spiaggia di Utah. Nella notte fra il 5 e 6 giugno i parà dell’82¬ e della 101¬ si lanciarono attorno al villaggio per aprire la strada ai fanti che sarebbero sbarcati. Alcuni scesero per sbaglio sulla piazza, tra le fucilate tedesche. L’americano più famoso di Sainte Mère-Eglise è ancora oggi il soldato John Steele: impigliato col paracadute sul campanile, rimase a penzolare per due ore in mezzo alla battaglia. É morto a Metropolis, Illinois, nel 1969.
Ma ancora di più è amato e rispettato un soldato di bronzo che tutti chiamano “Iron Mike”, quattro chilometri fuori dal villaggio, in mezzo alla campagna. La statua, dedicata ai parà americani, guarda i filari di alberi, i cespugli e i prati ondulati dove morirono migliaia di uomini. Il ferreo Mike porta l’elmetto alla ventitrè, il sottomento è slacciato, una gamba è appoggiata su una roccia. Non c’è nulla di marziale in questo soldato né in quelli che i cinegiornali hanno fissato nella memoria d’intere generazioni: soldati sorridenti che non marciavano né sbattevano i tacchi, dalle divise sgualcite, fatte di un cotone resistente e morbido che non si era mai visto prima in Europa.
Per disciplina o perché imposto dall’assicurazione, oggi a Bagdad i militari americani non si slacciano l’elmetto nemmeno durante le conferenze stampa. I 34 musei e memoriali, i cimiteri, i cippi e i monumenti che all’improvviso appaiono sulle spiagge e nella campagna della Normandia settentrionale non sono solo le tracce di una riconoscenza: testimoniano la nostalgia per un’America amata incondizionatamente, per un liberatore senza macchia, per un conflitto dai fini chiari contro un male evidente. Le guerre di oggi sono così confuse che non vengono nemmeno chiamate guerre. Ad Arromanches, davanti ai pochi reduci ancora in vita della battaglia di Normandia e a milioni di europei di oggi, non sarà facile per George Bush riuscire a vendere l’idea che il male contro il quale lottiamo oggi è come quello di allora.
UGO TRAMBALLI

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