Normandia: il debito che ancora abbiamo con quei ragazzi

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Pubblico l’articolo uscito oggi sul Sole-24 Ore. Di seguito allego il reportage che avevo fatto dieci anni fa dalla Normandia (una volta anche il Sole faceva i reportages) utile, credo, per capire come sono cambiate l’America e l’Europa in un deennio, dall’anniversario del 2004 a quello del 2014. La foto qui accanto è di Robert Capa che sbarcò con i fanti americani a Omaha Beach.

Il tempo passa e i ricordi perdono la loro efficacia. I leader ascolteranno gli inni e ci sarà un po’ di retorica. Ma tra i vialetti del cimitero americano sopra Omaha Beach, poco più a Ovest, cammineranno sempre meno reduci del 2° Rangers; né vecchi parà della 101^ torneranno al memoriale di Sainte Mère-Eglise. E sarà difficile trovare un novantenne della Sesta divisione inglese, tracannare una pinta di birra al Café Gondree, come aveva fatto ancora col mitra in mano all’alba di quel 6 giugno, dopo aver conquistato Pegasus Bridge: la prima battaglia del D-Day.

Più che scolorirsi, i ricordi assumono la forma dei tempi. Dieci anni fa, quando i leader del mondo s’incontrarono ad Arromanches per il sessantesimo, fuori dalla Normandia era difficile trovare europei che amassero o ancora ritenessero necessari gli Stati Uniti. Era l’America che nel 2003, l’anno prima, aveva invaso l’Iraq e che con l’alleato transatlantico aveva interessi e propositi sempre più distanti. L’allora segretario alla Difesa Don Rumsfeld parlava di “un’Europa smidollata” opposta a un’America guerriera contro il nemico di allora: Osama bin Laden.

Davanti al grigio braccio di mare dal quale settant’anni fa arrivarono i liberatori, molte cose sono cambiate anche solo rispetto a dieci anni fa.  Per cultura, comportamenti e aspirazioni, Barack Obama è un leader molto più simile a quelli del vecchio continente di quanto non fossero i suoi predecessori neo-con. Ma è difficile capire se il mondo abbia fatto dei passi in avanti o sia regredito. La crisi ucraina e i comportamenti di Vladimir Putin rimettono in discussione la pace europea e apparentemente rendono gli Stati Uniti di nuovo desiderabili: essendo ancora lontani dalla definizione di una politica estera e di difesa comuni, gli europei hanno bisogno della diplomazia e della forza militare americane di fronte alle nuove/vecchie ambizioni imperiali della Russia.

Se non proprio “nazione indispensabile” come Obama ama ripetere citando l’ex segretaria di Stato Madeleine Albright, l’America è ancora molto utile. “Come possiamo consentire le tattiche oscure del XX secolo per definire il XXI?”, chiedeva l’altro giorno il presidente agli europei, a proposito delle minacce di Putin. Bene, potrebbero chiedere a loro volta gli europei, ma l’America ha ancora la volontà d’impedirlo? E’ ancora in grado di esercitare la sua forza e che genere di superpotenza intende essere da oggi in poi nel XXI secolo?

In un lungo articolo su The New Republic (“Superpowers Don’t Get to Retire”) Robert Kagan offre la spiegazione migliore di ciò che vuole essere l’America di Obama. Sempre una superpotenza ma “normale”. Spiega l’autore, lo stesso che dieci anni fa aveva definito “Marte” gli Stati Uniti e “Venere” l’Europa, con un certo disprezzo: normalità significa “difendere la patria, evitare gli impegni all’estero, preservare l’indipendenza e la libertà di azione del Paese e creare prosperità in casa”.

Ma come reagirebbe una superpotenza normale se dopo l’Ucraina, Putin cercasse di normalizzare la Polonia e le repubbliche baltiche? O se in Siria e nel resto del Medio Oriente i jihadisti prendessero il controllo; l’Iran acquisisse la bomba atomica aprendo una corsa al riarmo nucleare con sauditi, Egitto e Turchia; o se la Corea del Nord invadesse il Sud e per il possesso di qualche isolotto, cinesi e giapponesi si sparassero addosso? Nel suo discorso d’insediamento sei anni fa Obama annunciò di voler affrontare “il mondo per quello che è piuttosto che per quello che potrebbe essere”. Il mondo è questo, pieno di pericoli, ora perfino nel cuore d’Europa.

“Riluttante” o “normale”, in questo mondo l’America resta la superpotenza. Anche quando la Cina annuncia di scambiare merci più degli Stati Uniti e presto di avere un’economia per dimensioni più grande, la realtà va vista nei dettagli. Come spiega Bruce Jones della Brookings Institution di Washington, paragonare i due Paesi per dimensioni “è come comparare i Lakers di Los Angeles con una squadra di basket di una scuola media: entrambi hanno 11 giocatori ma il paragone finisce qui”. Anche quando l’economia cinese supererà l’americana, la seconda sarà molto più ricca procapite, il dollaro avrà un ruolo maggiore nella finanza mondiale e le imprese americane continueranno ad accumulare il 50% dei profitti globali. Ed essendo la Cina il primo partner commerciale degli Usa, più i cinesi cresceranno, più compreranno americano.

Gli Stati Uniti hanno alleanze e partnership politiche o militari con 60 Paesi nel mondo, la Russia ha sei alleati formali e la Cina uno solo, la Corea del Nord che offre più problemi che vantaggi. E’ ovvio che l’America ci guadagna ovunque si faccia un alleato. Ma se cercando un amico potente, un Paese studia le opportunità riguardo a sicurezza ed economia, il mercato è ancora saldamente dominato dagli Stati Uniti. La scandalosa crisi finanziaria del 2008 esplosa a Wall Street e diffusasi come l’ebola in Europa, ha tolto all’America molti vantaggi morali e pratici. Ma nemmeno questo ha permesso a Russia e Cina di guidare al suo posto l’economia globale.

Verrà il giorno in cui il D-Day sarà ricordato come la battaglia di Agincourt  fra inglesi e francesi, nel 1415, che per un po’ stabilì il predominio tattico degli arcieri e modificò alcuni poteri in Europa. Come il D-Day da Hollywood, Agincourt, combattuta il giorno di San Crispino, è stata glorificata da Shakespeare in Enrico V: “We few, we happy few, we band of brothers” avrebbe ispirato la Compagnia Easy della 101^ aviotrasportata, la “Band of Brothers” di Normandia.

Ma il 6 giugno 1944 non è ancora così lontano come la battaglia “nel dì di San Crispino”. E’ stato un giorno fondamentale per l’Europa democratica nella quale viviamo oggi e i suoi effetti hanno ancora un peso sull’Europa che dobbiamo finire di costruire.

 

normandia     6 Giugno 2004

 

 

 

 

 

 

 

  • carl |

    Il commento è rimasto tronco..

  • carl |

    Il mondo ricorda..Ricorda che sia pure sanguinosamente, col solito senno dipoi e(fors’anche) per il rotto della cuffia.. ce la fece nonostante gli errori commessi e le decisioni prese o non prese a Versailles nel 1919 e prima e dopo la crisi del ’29..
    E andrebbe altresì ricordato che il mondo d’allora aveva una popolazione che non era neppure un settimo di quella attuale.
    Ragion per cui, più che rimembrare e celebrare o, diciamo, oltre che a rimembrare e celebrare, bisognerebbe chiedersi se i “decisori”, se coloro che contano siano/si riveleranno essere all’altezza dei problemi, della complessità del mondo attuale.
    Ed in primo luogo, si riuscirà a dare lavoro a tutti coloro che sono in grado di svolgerne uno?
    In un mondo ove dopo i bagordi e gli sprechi di 70 anni si mangia ancora 3 volte al giorno e si vive più a lungo (almeno nella sua parte occidentale) ma ove l’energia è sempre più cara e complessa di ricavare, e i rischi di inquinamenti sempre maggiori e più gravi. E ben sapendo che il modus vivendi occidentale non potrà essere capillarmente diffuso ovunque in un pianeta dove la crescita più sostenuta e è quella demografica.
    Comunque essendo il mio solo un commento qui mi fermo.

  • carl |

    Il mondo ricorda.. Ricorda che, sia pure sanguinosamente,con l’usuale senno di poi e(fors’anche)per il rotto della cuffia, gli è andata bene nella guerra 1939-45. Sebbene non avesse preso – nel 1919 a Versailles e prima e dopo la crisi del ’29- le misure del caso sul piano politico,economico e sociale. E andrebbe altresì ricordato che il tutto ebbe luogo in un pianeta sette volte meno popolato di quello attuale..
    Riusciremo dun

  • Andrea Pagnini |

    Come sempre un punto di vista prezioso. Saluti da Cattolica.

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