Oggi la libertà: si vota in Sudafrica

South africa  Vent’anni in un battito di ciglia. Il 27 aprile 1994 i sudafricani – tutti i sudafricani – votavano per la prima volta: neri, bianchi, colorati, indiani. Comunisti, socialisti, pan-africanisti, liberal-democratici, conservatori, sostenitori della supremazia bianca. Tutta la Rainbow Nation, anche quella che nella Nazione arcobaleno non ci voleva stare.

  Il 7 di maggio il Sudafrica – tutto il Sudafrica – torna a votare per la quinta volta. Allora il candidato era Nelson Mandela; oggi l’African National Congress chiede la riconferma di Jacob Zuma per un secondo mandato quinquennale. Difficile paragonare lontanamente i due candidati. E difficile anche ritrovare nell’Anc di oggi la stessa spinta morale e ideale di quello di allora. Vent’anni di potere senza la pressione di un’opposizione credibile, capace di insidiare la vittoria, rendono mediocri il corpo del partito e i leader che è capace di esprimere. Sotto ogni latitudine, anche le nostre.

   Fra tutti i Paesi Brics, il cammino verso lo sviluppo economico sudafricano è il più ostico. Zuma non ha il carisma di Mandela né le idee economiche di Thabo Mbeki, i suoi due predecessori. Ciononostante vincerà di nuovo. Forse lui e l’Anc prenderanno le percentuali più basse della storia del Sudafrica democratico; forse l’affluenza alle urne sarà deludente. Ma vinceranno con percentuali capaci di distanziare di decine di punti gli altri. Il partito, in sostanza, corre da solo. Non è un bene per il Sudafrica. Senza scosse morali né allarmi elettorali, alle prossime elezioni fra cinque anni l’Anc sarà ancora meno capace di produrre il leader che serve.

  Però questo è comunque un altro Paese. Il libro necessario per capire la Storia contemporanea del Sudafrica e dove oggi è arrivato, lo scrisse Allister Sparks: “Tomorrow is Another Country”. E’ il racconto puntiglioso di come l’apartheid è nato, si è sviluppato ed è stato smantellato. Consiglierei di leggere anche il suo “The Mind of South Africa”, la storia drammatica e affascinante dalle origini di uno dei Paesi più belli del mondo. Naturalmente nessuno dei due libri è stato mai tradotto in italiano. Ovvio.

   Quel luogo che, scriveva Sparks nel 1994, sarebbe stato un altro Paese, è effettivamente diventato migliore e più giusto. Non bastano vent’anni per fare quel crogiolo che il brand di successo inventato da Desmond Tutu – Rainbow Nation – lasciava prevedere. Il primo nero eletto alla Casa Bianca è solo il 44° presidente della storia degli Stati Uniti. Ma oggi i sudafricani condividono le stesse ambizioni credibili, hanno gli stessi sogni possibili, lo stesso senso di affiliazione nazionale quando vedono una partita degli Springboks e quando ascoltano l’annuale discorso presidenziale sullo stato del Paese.

  L’economia è asfittica. Ma quando noi da Occidente misuriamo la disciplina fiscale del governo, le opportunità di investimento, l’insufficiente crescita del Pil e l’andamento della Borsa di Johannesburg, non teniamo conto di quale ancora sia il significato di “economia” per una buona metà dei sudafricani.

  Economia è passare dalla capanna di alluminio a una piccola casa di mattoni, avere o non avere acqua corrente ed elettricità, mandare i figli a una scuola, ridurre il tasso di criminalità, l’80% della quale è nelle township nere. Non è economia di sussistenza ma la base essenziale di una qualsiasi economia.

  Lentamente, chi più (Thabo Mbeki), chi meno (Zuma), tutti i governi sudafricani da vent’anni a questa parte, migliorano la qualità della vita della maggioranza nera sudafricana, poco meno dell’80%. Un movimento criticabilissimo per la sua lentezza. Ma brasiliani e indonesiani, che pure continuano a subire crescite ineguali, nei loro spettacolari sviluppi economici non avevano la zavorra dell’eredità dell’apartheid.

  Nonostante una trattativa durata cinque anni e l’accordo finale tra Mandela e F.W.de Klerk, che avevano portato allo smantellamento del segregazionismo e alle elezioni, il 27 aprile 1994 avrebbe ancora potuto essere l’inizio di una spaventosa guerra civile. Nei giorni precedenti gli estremisti bianchi avevano fatto esplodere diverse bombe. A Johannesburg incominciammo a preoccuparci quando scoprimmo che la Cnn aveva mandato a coprire le elezioni Peter Arnett, allora il più famoso corrispondente di guerra. Invece ci fu il miracolo che meno eroicamente di quel 27 aprile in Sudafrica continua tuttavia a ripetersi ogni giorno.

 

 

Allego i miei ultimi due commenti sulla crisi ucraina, usciti in questi giorni sulle pagine del Sole-24 Ore.

 

 

  25/4 SE PUTIN CONTINUA AD ALZARE LA POSTA

 

L’ultima volta che si aveva avuto notizia della Diplomazia era il 17 aprile, da Ginevra. Russi, americani, europei e ucraini di Kiev – si diceva – avevano trovato un accordo per raffreddare la situazione. Ci sarebbero state le elezioni del 25 maggio, i filo russi avrebbero abbandonato le loro posizioni e messo da parte le loro pretese. In cambio avrebbero avuto una nuova Ucraina federalista che avrebbe garantito la loro autonomia.

  L’accordo, apparentemente equo, era il frutto di tante considerazioni. La più importante delle quali era la necessità di assecondare l’obiettivo della Russia, il partito più attivo e determinato in questa vicenda. Si dava cioè per scontato che l’ambizione di Vladimir Putin fosse la trasformazione dell’Ucraina da Stato centralizzato in federale. In questo nuovo assetto, ci sarebbe stata la garanzia di una forte autonomia delle regioni di lingua russa. Le loro radici e i loro legami con Velikaya Rossiya, la Grande Madre Russia, sarebbero stati riconosciuti.

  Anche se non garantita da un negoziato, implicitamente la Diplomazia aveva precedentemente riconosciuto alla Russia i suoi diritti sulla Crimea: la brutalità di un’occupazione militare e di un’annessione tipo Europa del XIX secolo, era stata superata dall’ammissione che solo il caso della storia, un tratto arbitrario di penna, aveva tolto la penisola alla Grande Madre Russia. Tutto questo pensando di interpretare il disegno di Putin: i movimenti di truppe alle frontiere avevano per obiettivo la Crimea. Ottenutala, il presidente russo avrebbe permesso che la crisi ucraina tornasse nelle mani rassicuranti della Diplomazia.

  Non era così. Il vertice di Ginevra e le sue decisioni erano un altro passo avanti rispetto a quello che noi pensavamo Putin volesse: dalla Crimea alla russificazione di altri e più vasti territori dell’Ucraina orientale. Tutto ora lascia credere che non fosse nemmeno questo l’obiettivo finale del presidente russo. Il comportamento sul campo degli ucraini di lingua russa immediatamente dopo Ginevra, dimostrava che anche la trattativa a quattro era superata poche ore dopo la sua conclusione.

  Credere che i filo russi continuino a occupare strade e uffici pubblici, ad armarsi, ad usare la forza, a rivendicare un’indipendenza che a Ginevra non era stata presa in considerazione; credere cioè che stiano creando le condizioni per una riunificazione con la Russia contro la volontà di Mosca, è come pensare che il rapimento di Elena sia stata la causa della guerra di Troia. Putin ha il pieno controllo di quelle popolazioni: se lo volesse, potrebbe far smantellare le barricate di Sloviansk e rimandare tutti al lavoro, nell’attesa che il compromesso di Ginevra si realizzi. Invece fa il contrario: i russi di Ucraina sono sempre più determinati e dall’altra parte della frontiera i carri armati non smobilitano. E’ difficile pensare che sia per l’arrivo in Polonia di 600 parà americani, che ieri i russi hanno ordinato altre manovre militari ai confini ucraini.

  Perché la questione numero uno di questa crisi nel cuore dell’Europa è la stessa dal suo inizio: capire cosa vuole davvero Vladimir Putin. Ignorare quanto deciso a Ginevra con il concorso della stessa Russia, è come istigare il governo di Kiev a reagire militarmente. Forse non è l’autonomia ma l’annessione dell’Ucraina orientale l’ambizione del presidente russo. Forse di più: è la normalizzazione dell’intera Ucraina. Il suo progetto di spazio euro-asiatico senza l’Ucraina e con il solo Stato fantasma della Bielorussia, è una comunità russo-asiatica, privata della componente europea. Dove vorrà fermarsi dunque Vladimir Putin?

 

 

20/4

 

SE C’E’ ANCORA BISOGNO DEGLI USA

 

  Quest’anno probabilmente non ci saranno più testimoni diretti al grande cimitero americano che domina la spiaggia di Omaha. Né, qualche chilometro a Sud di Utha Beach, reduci in carne e ossa renderanno onore alla statua di Iron Mike, il simbolo della 101^ aviotrasportata, alle porte di St. Mère Eglise. Il 6 di giugno saranno 70 anni dallo sbarco in Normandia e due terzi di secolo sono abbastanza per non lasciare più superstiti e scolorire il senso politico di un’antica alleanza.

  Più passa il tempo, meno l’Europa conta per l’America, e viceversa: geopoliticamente parlando, non economicamente. Le centinaia di basi e i 200mila uomini che stazionavano nel continente alla fine della Guerra fredda, entro il 2015 saranno sette e meno di 30mila. La Storia e altre vicende avevano portato a questa riorganizzazione: i tagli alla spesa del Pentagono, lo scacchiere asiatico più instabile (Corea del Nord, riarmo cinese, tensioni Cina-Giappone); un’Europa in pace e sempre meno disposta ad assecondare gli Stati Uniti: dall’invasione dell’Iraq, alle Primavere arabe e a Israele, la pensiamo sempre più diversamente. Inoltre, l’amministrazione Obama aveva incominciato a mutare visibilmente il concetto di superpotenza americana.

  Questo era lo stato delle cose fino a primavera. Molto dipenderà da quando e come finirà, ma la crisi ucraina riporta l’Europa al suo recente passato, rinviando un futuro migliore. Di più: il passato imperiale zarista-sovietico che Putin pretende di resuscitare, presuppone il ritorno del ruolo determinante americano in Europa.

  Quando in America dominava il pensiero neocon, ai tempi di George Buish, Robert Kagan aveva scritto un articolo paragonando gli Stati Uniti a Marte e l’Europa a Venere. Quella contrapposizione piuttosto hobbesiana di “Forza e debolezza” (il titolo dell’articolo di Kagan) è stata rispolverata dai comportamenti di Vladimir Putin. Quale credito dare a un presidente che, dopo averlo smentito per settimane, finalmente ieri si è “accorto” di aver dispiegato 40mila uomini, carri armati e aerei da combattimento alla frontiera ucraina?

   D’improvviso gli Stati Uniti sono tornati ad essere in Europa ciò che Madeleine Albright definiva così: “Se dobbiamo usare la forza è perché siamo la nazione indispensabile”. L’ex segretario di Stato di Bill Clinton non intendeva l’uso esplicito della forza ma la capacità di minacciarla credibilmente.

  Sarebbe bello poter dire che noi europei ce la caviamo da soli. Ma se con Catherine Ashton incominciamo a intravvedere le tracce di una politica estera comune, una Difesa Europea non esiste. E’ difficile trovare mezzi e soprattutto volontà politica quando perfino dentro la Nato nel 2012 solo tre Paesi – Gran Bretagna, Estonia e Grecia – avevano raggiunto il minimo del 2% del Pil in spese militari, richiesto dall’Alleanza atlantica ai suoi associati. In quello stesso anno, per la prima volta nella storia moderna i Paesi asiatici avevano speso per la Difesa più degli europei dell’Unione. Fride, il think tank europeo che ha raccolto questi dati, spiegava che la ragione non andava tanto cercata nella crisi economica: per esempio il taglio degli F35 in Italia. La causa era piuttosto ”l’autocompiacimento e un fraintendimento nell’approccio all’uso della forza militare”.

   Gli unici europei a non compiacersi né ad aver mai escluso la necessità delle armi come deterrente, sono gli ultimi arrivati: tutti i Paesi dell’Est liberati dalla caduta dell’impero sovietico. Più sono vicini alle frontiere della Russia di Putin, di Medvedev e poi ancora di Putin, più chiedono alla Nato e alla Ue fermezza e mobilitazione. Aumentando la distanza da quei confini, prevalgono la comprensione delle ragioni russe e, ancor di più, la salvaguardia degli interessi economici maturati con Mosca. Vladimir Putin rende sempre più difficile capire quali europei abbiano ragione.

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  • carl |

    La ringrazio dott Tramballi per aver risposto, sia pure succintamente, al quesito postoLe. Lei ha fatto risuonare la Sua campana.. Del resto va da sè che il caso della denuclearizzazione del wasp S.Africa, anzi dell’anglo/olandese/franco/indiano/mo/ecc.ecc.(proprio un Rainbow Country..:o) sia tutt’ora un caso più unico che raro.. Per cui è un vero e proprio mono “history case”..No?
    Aggiungo infine di convenire con Lei sul cammino e i problemi non piccoli, nè semplici che attendono al varco detto Paese, la cui situazione d’insieme/generale tuttavia forse, anzi probabilmente, è per certi versi migliore di quello dell’altra grossa entità africana e cioè la Nigeria, ricco (sopratutto il suo establishment che mima i “maestri” colonizzatori..:O) prevalentemente di oro nero, più che di giallo..:o)

  • Ugo Tramballi |

    Caro Carl, i commenti ucraini erano solo degli allegati. Quanto al nucleare sudafricano, non se ne disfecero per non lasciarlo in eredità all’ANC. Il processo di disarmo fu deciso fra il 1988 e 89.E’ vero che l’idea di trattare con Mandela,ancora in carcere, era già emersa. Ma il Partito nazionale, allora, era convinto di poter aprire all’ANC, senza dargli ruoli di governo. La decisione di rinunciare all’arsenale nuke fu presa nella speranza di migliorare la faccia internazionale del Sudafrica bianco, in un momento gorbaciovian/reaganiano in cui ridurre gli armamenti era di moda. Qualche anno dopo lo stesso Mandela fu ben felice di avallare le scelte precedentemente fate dai boeri.

  • carl |

    Difficile, anzi impossibile con un commento di blog abbordare i Suoi 3 pezzi, dott.Tramballi..:o)
    Ecco perchè decido di occuparmi, almeno in primis del S.Africa. Tanto è probabile (nonostante quanto abbia detto N.Borhs sulla difficoltà delle previsioni, specie se riguardano il futuro..:O) che dell’Ukraina avremo tempo, modo e ragioni di ritornarci..
    Ebbene per quanto riguarda il S.Africa Le sarei grato se oltre al processo di smantellamento dell’apartheid ci desse qualche ragguaglio anche sul precedente smantellamento dell’industria nucleare.. Forse che da qualche parte in occidente si temeva che se la nazione Rainbow fosse arrivata a disporre del nucleare ne avrebbe potuto combinare “di tutti i colori”..:o)
    E che in effetti, parafrasando parzialmente il Kipling, solo l’uomo bianco o quasi fosse (e sia tutt’ora) in grado di portare anche il fardello nucleare..:O)???

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